Se la privacy tutela i furbetti ​e dimentica gli intercettati

di Anna Corrado
Giovedì 13 Agosto 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:23
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Il dibattito pubblico sul diritto a conoscere dei cittadini si arricchisce di nuovi spunti di riflessione: dopo l’accesso ai verbali  del Comitato tecnico scientifico posti a presupposto dei dPCM in tema emergenza Covid, recentemente riconosciuto dal Tar del Lazio,  ora tocca ai nomi dei parlamentari (ma la lista potrebbe allungarsi interessando altri soggetti con ruoli politico istituzionali ) che hanno fatto richiesta del bonus «Covid» di 600 euro per le partite iva, così riproponendosi il tema della trasparenza  e del suo rapporto con il diritto alla privacy.

Il dibattito si accende e oltrepassa i confini politici per essere risolto, come è  giusto che sia, sul piano  giuridico nel confronto tra due diritti fondamentali “eternamente” in conflitto: riservatezza e trasparenza, il diritto a non vedere rivelate le proprie generalità e il diritto dei cittadini ad avere un sistema trasparente per conoscere, in questo caso, come sono stati spesi, e in favore di chi, i soldi pubblici. Quale diritto avrà la meglio? La risposta è facile se si fanno alcune semplici considerazioni: si tratta di parlamentari, quindi di soggetti per i quali si affievolisce l’aspettativa di riservatezza in quanto soggetti con rilevante ruolo pubblico, che non possono confidare sul diritto alla riservatezza alla pari del comune cittadino;  sussiste già dal 2013  un obbligo di pubblicità, in capo alle amministrazioni, con riguardo ai vantaggi economici elargiti a soggetti privati,  ad esclusione di quelli riconducibili a situazioni di disagio economico sociale.

Ciò che dovrebbe essere chiaro, comunque,  è  che non basta “un nome e un cognome” per negare l’accesso alle informazioni o ai documenti, concernenti l’attività amministrativa; la privacy non è un “salvacondotta” a disposizione di chi non vuole rendere conto all’esterno del proprio operato, soprattutto quando beneficia di soldi pubblici. Il diritto alla riservatezza non vanta una assoluta e prevalente tutela, ma va contemperato con il diritto alla trasparenza, che fonda una società veramente democratica. Conoscere i nomi dei parlamentari in questione non significa ingerirsi “nella vita degli altri”, non è voyeurismo amministrativo, né gossip, ma consente di realizzare il principio democratico di conoscenza e così di favorire un più ampio dibattito pubblico, come d’altro canto sta avvenendo.  Assicurare la trasparenza nella avvenuta elargizione dei bonus Covid consente ai cittadini di conoscere i nomi dei parlamentari che, pur rivestendo detta carica istituzionale, hanno ritenuto di chiedere il contributo in questione; che siano furbetti o che si sia trattato di un errore saranno altre sedi a deciderlo, anche per stabilire  eventuali responsabilità; ciò che rileva ora è che questi soggetti rendano conto ai cittadini e agli elettori del loro operato, anche in ragione del dovere di accountability che incombe sulla classe politica. 

La tutela della privacy non può  fare, quindi, da scudo alla conoscibilità  dei destinatari del benefici, come anche affermato dal nuovo Garante, per cui una eventuale istanza di accesso civico andrebbe certamente accolta. 

D’altro canto, accampare ragioni di  riservatezza in presenza di nomi e cognomi per negare l’accesso a documenti e informazioni che impattano con attività e scelte pubbliche non può essere la strada percorribile: se si considera che la gran parte dell’attività delle amministrazioni vede al centro le “persone”, destinatarie di provvedimenti amministrativi o che ricevono vantaggi economici o che forniscono beni e servizi alle stesse amministrazioni. Rifugiarsi allora dietro lo schermo del nominativo significa assegnare una sorte nefasta a ogni richiesta di trasparenza.

Ogni istanza di  accesso alle informazioni amministrative che impatta con dati personali comuni (quindi non quelli sensibili) implica, piuttosto, un bilanciamento tra i contrapposti interessi, incluso quello pubblico alla conoscibilità e di chi aspira a conoscere l’attività amministrativa, per come anche chiarito e affermato da una  recente adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Certo non può ignorarsi come l’esperienza italiana in tema di applicazione dei due principi non sia affatto  incoraggiante; sia sul versante privacy che su quello della trasparenza non si registrano applicazioni “costanti” e consolidate. Si tratta di principi  che vengono spesso considerati e interpretati alla “bisogna”: la trasparenza come principio buono per ogni stagione, utilizzato dalla classe politica come slogan per sdoganare più utili procedure e fare proclami, indignandosi soprattutto per la mancanza di trasparenza “altrui”; la privacy, in più di un’occasione considerata come un inutile orpello, che nulla può contro pubblicazioni che veramente danneggiano la reputazioni delle persone, come gli stralci di intercettazioni sulla vita privata di soggetti coinvolti in vicende penali che niente aggiungono al diritto di cronaca dei cittadini.
 
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