Malati Covid, aprite le stanze dell'addio

di Piero Sorrentino
Lunedì 25 Gennaio 2021, 00:00
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Non è stato facile leggere, ieri su questo giornale, la testimonianza di Carlo Porcaro che raccontava l’ultimo saluto a suo padre, morto di Covid in un ospedale bolognese. Un numero tra i numeri per la maggior parte degli italiani che ogni giorno assistono alla conta dei decessi, presi dentro uno stordimento che è diventato a poco a poco quasi indifferenza, in una forma anestetizzante di difesa dal dolore; uno sconforto immedicabile per chi quella vita l’ha conosciuta, amata e accompagnata fino alla fine.

Tra questi due stati d’animo, nell’arco di questo pendolo tra il distacco e l’infelicità, si apre un deserto troppo largo. Sono lontani, o dimenticati, i tempi della nostra angoscia pubblica e comunitaria di fronte alla sfilata dei camion militari colmi di bare a Bergamo. E troppo prossima, invece, è la sensazione di essere incastrati in un circuito di oppressione, ansia e smarrimento che ci rende inabili nel trovare un significato collettivo a ciò che sta accadendo a tutti noi da ormai un anno.

Come pressoché per ogni aspetto della nostra esistenza, la spallata della pandemia ha fatto saltare anche il paradigma della morte in ospedale. Un percorso che era dettato dai tempi di quella che Philippe Ariès aveva battezzato «La congiura del silenzio», un vero e proprio complotto concertato dai sani a danno dei malati, con l’intenzione di nascondere loro – a fin di bene – la verità sulla loro prossima fine. Tutti sapevano, era la teoria dello storico francese, tranne il malato. Tutti alimentavano una catena di bugie, censure, trucchi per tenere il malato al riparo da ciò che l’avanzare della malattia rendeva sempre più evidente: l’approssimarsi della fine. 

Tutti artefici di una severa sceneggiatura che finiva con l’ottenere un unico risultato: privare il malato dell’unico diritto che gli restava, quello di sapere con delicatezza e chiarezza cosa gli sarebbe accaduto, e ottenere l’ultima e suprema autorità di pensare il proprio tragitto di vita che finisce, senza schiacciarlo nell’isolamento della fine. Con il Covid anche questo percorso è stato scardinato. Adesso è il contrario. Ora è il malato stesso a essere diventato oggetto di cancellazione, segreto innominabile, corpo intoccabile. Prima era il mondo che nascondeva al malato la sua imminente fine; adesso è il malato medesimo che si nasconde al mondo, che viene isolato, incapsulato dentro una bolla immunizzante, infine sigillato – letteralmente sigillato – dentro una bara e consegnato ai suoi cari.

Ma se «non c’è conoscenza senza sofferenza», come ha scritto una volta Simone Weil in uno dei suoi quaderni, allora quale momento migliore di questo per imparare, o per cambiare? Quale parentesi più tragica di questa per cominciare ad apprendere qualcosa da queste esperienze dolorose, da questi numeri – 500, 650, 730 – che ogni giorno ci vengono incontro da giornali, radio e tv? E tra le cose che abbiamo imparato leggendo la testimonianza così toccante di Porcaro, il racconto del suo saluto estremo al padre morente, c’è una lezione di civiltà che dovremmo mutuare immediatamente proprio da quegli ospedali del Nord Italia che per primi hanno cominciato a combattere la pandemia: la necessità di allestire, anche qui da noi, una “stanza dell’ultimo saluto” per chi sta morendo di Covid.

ltima mano stretta, l’ultimo abbraccio prima dell’addio, è un gesto irrinunciabile e dovuto.

Abbiamo già delegato ampie porzioni della nostra vita agli schermi di computer e cellulari: lavoriamo col computer, guardiamo in streaming film e serie tv, condividiamo il tempo libero e i compleanni degli amici attraverso gli schermi di un tablet, insegniamo alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi per mezzo del digitale. Ma il confine ultimo, il Mistero più grande, quello bisogna riservarlo alla presenza, alla materialità dei corpi e degli affetti. Non è più possibile accettare di dover prendere atto della morte di un proprio caro attraverso una telefonata, o magari per mezzo di una videochiamata su Skype, grazie alla mano di qualche pietoso infermiere che regge una protesi tecnologica puntando la videocamera sul volto di un parente o di una persona amata che sta per andarsene senza che una mano amica gli stia accanto.

Prima si poteva capire: eravamo spaventati, storditi da questo improvviso tsunami. Ma adesso no, abbiamo gli strumenti per difenderci, sappiamo cosa fare, è possibile allestire percorsi sicuri per un numero limitato di persone e per un tempo contingentato che tutelino tutti. Questo è un appello alle autorità politiche e sanitarie della Regione Campania: rendete concreta la possibilità per le famiglie di vedere, per un’ultima volta, i loro cari. È un gesto minimo che unisce tutti, credenti o laici, religiosi o meno, nella pietas umana di fronte al dolore di una scomparsa.
 

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