'Na tazzulella, gesto antico ​ma già perduto nel monouso

di Titti Marrone
Martedì 22 Dicembre 2020, 00:00
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Quanti strani pensieri, quanti comportamenti sbilenchi in quest’attesa di un Natale-Covid, diverso da ogni altro mai vissuto. Incrociando per strada i nostri simili, tendiamo istintivamente a scansarci da loro in un nuovo impulso di diffidenza destinato a restare, chissà per quanto tempo a venire, retaggio negativo di questa sciagurata stagione.

Constatiamo che sono in tanti a sciamare per le vie dello shopping e commentiamo: “Troppa gente in giro”, come se a far parte di quella “troppa gente” non ci fossimo anche noi. Certo, com’è già accaduto nella primavera meteorologicamente radiosa del lockdown, il tempo atmosferico è un provocante richiamo ad andare fuori casa: c’è uno spreco di splendore in questo dicembre napoletano maledettamente invitante, con il tepore lucente di giornate blu cobalto che nemmeno a maggio è dato gustare. E allora ha il sopravvento l’umanissima voglia di uscire, respirare a pieni polmoni un’aria più leggera e pulita. E viene voglia di prendere un caffè. 

È come la ricerca di un elisir consolatorio, il ricorso a un balsamo antico, familiare al palato, in risposta a un riflesso condizionato. 

Capita così che tantissimi napoletani in giro per strada in questi giorni si siano affacciati al bar per il tempo consentito a portar via, se non la “tazzulella” cantata da Pino Daniele, almeno un contenitore mignon monouso, spargendo in giro il profumo inconfondibile della miscela densa e scurissima. 

Non serve mobilitare studiosi dell’interiorità o storici delle mentalità per capire che, quando ci si sente in bilico, c’è bisogno anche di piccoli rituali rassicuranti per riacchiappare quel senso di esistere, quell’identità del quotidiano pericolosamente soverchiati dalla sensazione del pericolo. E allora, per i napoletani, il rito del caffè. Quello apprezzato dalla gente di tutti i Sud e cantato da Pino Daniele in un paio di memorabili canzoni, in cui la vivacità dei suoi scugnizzi intenti a portare “tazzulelle” a chiattone accaldate dipinge uno sberleffo sul lavoro minorile obbligato in famiglie in cui ci si “puzza” di fame. Quello descritto da Eduardo al professore dirimpettaio sulla “loggetta” di Questi fantasmi, preparato con la “napoletana” dal beccuccio ricoperto da un “coppetiello” per non disperderne l’aroma.

Il caffè che a Napoli, come spiega Luciano De Crescenzo, diventa “sospeso” quando viene offerto a sconosciuti in bolletta, per festeggiare la fortuna di un proprio momento di felicità. Il caffè che don Benedetto Croce, come raccontò Giuseppe Prezzolini a Mario Agliati, amava assaporare a palazzo Arianella, in via Atri 23, mentre metteva a punto il primo numero della Critica (“C’era un vecchio cameriere che si rivolgeva ai visitatori in dialetto partenopeo portando immancabilmente il caffè preparato con una ‘napoletana’”). 
Ancor più dell’oleografica pizza, a ben vedere è il caffè a custodire il vero canone trasversale dell’essere napoletani, anche quando si è fuori dalla legge, come canta Fabrizio De Andrè in Don Raffae’. 

Eppure la storia d’amore tra Napoli e la miscela araba (o etiope?) comincia relativamente tardi, come spiegano gli esegeti della materia.

Non nel Seicento dominato dal clero che lo bolla come bevanda demoniaca o, in alternativa, diffonde la diceria per cui porta male. Non nel primo Settecento in cui impazza la cioccolata degustata dalle dame secondo la moda francese in ampie tazze fumanti. Il colpo di fulmine scocca grazie a Maria Carolina d’Austria, quando nel 1768 sposa re Ferdinando e da Vienna importa, con un po’ di logge massoniche che strizzano l’occhio all’anticlericalismo di stampo illuminista, il profumato caffè da gustare in tazzine di porcellana di Capodimonte. Subito amato dai giacobini napoletani.

Da allora, e per sempre, nella “tazzulella” si è fermato un po’ del gusto per la vita tipicamente napoletano che si accontenta di poco e fa dire ad Erri De Luca: “A riempire una stanza basta una caffettiera sul fuoco”. Frase che deve farci riflettere: possiamo prepararci il caffè, e gustarcelo, anche a casa nostra. O meglio, dobbiamo. Dovremo, nei prossimi giorni, con buona pace dei bar, in cui speriamo di poter tornare prestissimo. E sarà meglio, finché ci verrà chiesto di limitare le nostre uscite allo stretto necessario, se insieme al gusto vorremo conservarci, e conservare al prossimo nostro, la possibilità stessa di una vita.
 

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