Cosa serve alla cultura oltre Factory e Festival

di Piero Sorrentino
Lunedì 14 Giugno 2021, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Non esiste argomento che si candidi, più di quello relativo ai modi più adatti di promozione della cultura, a venire assediato da discorsi e dibattiti che potrebbero non avere mai fine. I pro e i contro si affollano senza limite. Forse nessun tema riesce a polarizzare la discussione più di questo, e ad accendere gli animi secondo tensioni più o meno sotterranee. E non esiste responso che riesca a mettere tutti d’accordo. Qualsiasi sia la posizione assunta, il fragore della discussione sarà comunque più assordante del suo esito finale. 

Per questo, è bene dire subito che due tra le più recenti proposte sul tema – la prima edizione del festival letterario «Positano racconta» diretto da Nicola Lagioia e l’idea di creare una cosiddetta factory culturale negli spazi dell’Albergo dei Poveri di piazza Carlo III a Napoli, lanciata nei giorni scorsi da Maurizio De Giovanni col Corriere del Mezzogiorno – sono benvenute. Conosco bene sia Lagioia che De Giovanni, e so che non si infilerebbero mai in operazioni culturali sgangherate o poco serie, che non presterebbero il loro impegno e la loro forza per contribuire ad assemblare baracconi che della cultura funzionassero solo come paravento o passata di smalto per prosceni affollati di assessori, funzionari e notabili locali pronti a sfruttare politicamente il gran traino d’immagine che gli eventi legati all’arte e alla cultura sono capaci di innescare. Dunque ben venga un Festival tra le piazze e le vie di un gioiello di bellezza e natura come Positano, e ben venga l’idea di rilanciare uno spazio abbandonato e inutilizzato come il Real Albergo dei Poveri.

Animare i posti parlando di libri e letteratura, creando spazi di produzione artistica e culturale è, molto banalmente, sempre meglio che farlo creando nuovi centri commerciali o lasciandoli deperire a poco a poco. E farlo provando a tenere dentro quante più persone possibile, allargando quanto più si può la potenziale platea del pubblico interessato, è più importante che continuare a portare avanti l’idea, e la pratica, che la cultura non possa che essere un settore d’élite, riservato a pochi eletti. «Tartufi per tutti», ha riassunto una volta, assai efficacemente, Carlo Ginzburg. Sono dunque sicuro che sia Lagioia che De Giovanni converranno come me se, a questo punto, dico che bisogna però fare estrema attenzione alle fughe in avanti.

Perché occasioni luminose come queste possono – nell’Italia, soprattutto meridionale, dei paradossi – rivelarsi come un problema, secondo una eterogenesi dei fini che finisce con l’aggravare una situazione che si vuole alleggerire. Se, per esempio, a Positano manca – come mi è incredibilmente capitato di scoprire – una normale libreria cittadina, o se Napoli e provincia sono servite, diciamo così, da una rete di biblioteche di quartiere slabbrata e disastrata da decenni, non sarebbe meglio partire da qui per la costruzione di un nuovo e solido tessuto culturale?

Vale, in casi come questo, lo stesso identico principio di precauzione che vale per le infrastrutture nazionali. A che serve costruire le famose «grandi opere», con la solita enfasi sull’aggettivo che dovrebbe accecare i cittadini con le sue promesse di straordinarie meraviglie, se ancora incontriamo enormi difficoltà a spostarci di pochi chilometri perché mancano piccole percorribili, brevi tratti ferroviari di servizio, autobus o traghetti capaci di consentire spostamenti minimi ma fondamentali? Se è vero, come è vero, che oggi l’unica strada di intervento percorribile in Italia è quella delle piccole opere, e che le grandi opere sono da temere soprattutto sul piano culturale, non è forse il caso di pensare sotto questo profilo anche il tema della cultura? Va benissimo sollevare dibattiti, suscitare discussioni, stimolare la conoscenza per mezzo di Festival o Factory multidisciplinari dell’ingegno: ma non è ancora più decisivo operare un lavoro dal basso, operaio, minuto, faticoso? Perché se a Positano manca un presidio librario nei restanti 360 giorni senza Festival, e se a Napoli e provincia è impossibile avere accesso a un servizio minimamente dignitoso di biblioteche di quartiere che possa offrire a cittadine e cittadini una micro-Factory di Bellezza, conoscenza e cultura disseminata sui territori dei vari quartieri, non c’è qualcosa che stona fortemente? Che si chieda e si ottenga che la medesima forza, volontà, e impegno riversati con caparbietà in imprese culturali come queste, allora, siano destinate alla cura di un apparentemente piccolo – ma quanto grande, in realtà – gruzzolo di esperienze e realtà dal basso che sono il tesoro più prezioso per la cultura, la consapevolezza e la cittadinanza attiva. 

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