«Ai corvi della Dad dico: rispettate i prof»

di Silvia Parigi *
Lunedì 25 Gennaio 2021, 23:47 - Ultimo agg. 26 Gennaio, 13:20
5 Minuti di Lettura

«Persino i corvi sui tetti gracchiano sulla natura dei condizionali»: il frammento dell’epigramma di Callimaco rimanda a una celebre disputa svoltasi nella Grecia del terzo secolo avanti Cristo: quella sul valore di verità delle proposizioni condizionali. I filosofi della Stoà erano inclini a prendere le discussioni logiche piuttosto sul serio, se Crisippo scrisse ventotto libri sul paradosso del mentitore – la celebre affermazione: «Tutti i cretesi sono bugiardi», pronunciata da Epimenide cretese - e Filita di Cos morì per la protratta intensità delle meditazioni notturne su quell’ardua proposizione, che se è vera è falsa, e se è falsa è vera.


Nell’Italia del terzo millennio dopo Cristo, uno dei dibattiti più accesi ed estesi riguarda la didattica a distanza, meglio nota con il suo acronimo: DAD. Della DAD, da quasi un anno, parlano tutti, schierandosi su fronti opposti, con toni egualmente vibranti di passione e di sdegno: virologi, epidemiologi, politici; filosofi dei media e filosofi tout court; pedagogisti ed esperti di didattica a vario titolo, con competenze variegate nella qualità e nella quantità; profeti di Internet, giornalisti, studenti, magistrati; molto più defilati, o del tutto silenti, i docenti di ogni ordine e grado, che della DAD sono tuttavia gli artefici e i protagonisti assoluti. A volte le due parti in causa si affrontano letteralmente senza esclusione di colpi, come quei genitori che hanno difeso opposti punti di vista sul ritorno a scuola dei propri figli prendendosi a ombrellate, durante una manifestazione napoletana di qualche giorno fa. Tutti sono pieni di entusiasmo, nel senso letterale del termine, secondo gradi diversi di possessione divina o demonica, in un parterre piuttosto affollato di entità preternaturali.
Non avrei mai osato aggiungere la mia voce al coro dei corvi callimachei, se non per un flebile desiderio di chiarezza, dato che la pressante attualità della materia, con il conseguente grado di coinvolgimento emotivo delle parti in causa, rischia di far perdere di vista lo status quaestionis.


E dunque:
La DAD non è sostanza: è accidente. Non è un contenuto: è un mezzo. Sostanza è lo scambio di conoscenze tra docente e studente. E questo dipende dalla cultura, dall’impegno e dal grado di curiosità del maestro e dell’allievo. Si possono fare splendide e utilissime lezioni in modalità DAD, così come in presenza, e lezioni noiose, perniciose e funeste in DAD, così come in presenza. Quindi, quando si afferma, che “le scuole sono chiuse” e che studenti e docenti sono in vacanza da quasi un anno, si fa un’affermazione la cui falsità è palese, perché si nega un dato di fatto.
La DAD riguarda tutti: bambini, preadolescenti, adolescenti, studenti universitari. È evidente che la difficoltà di quella modalità è inversamente proporzionale all’età dei discenti, ma perché dovrebbe esserci una differenza essenziale tra uno studente liceale e un universitario? Eppure della DAD si parla solo e sempre in relazione alla scuola, facendo apparire l’insegnamento in DAD del tutto naturale e privo di qualsivoglia ombra, ove riguardi l’accademia.


La DAD non è una panacea; è la soluzione a un problema: ma se quel problema è una pandemia, la DAD diventa una strategia di sopravvivenza: essa salva vite umane. Quanti contagi sono stati risparmiati dalla DAD? La scuola e l’accademia non sono i templi immateriali del sapere: sono luoghi di incontri, di contatti fisici intensi, ripetuti, quotidiani, che prescindono dagli affollamenti sugli autobus, o dalla tentazione costante e irresistibile degli assembramenti all’uscita. La scuola non può essere ridotta a un problema di capienza e di frequenza dei mezzi di trasporto pubblici, perché gli studenti e i docenti non sono statue perennemente fisse nei demarcati perimetri dei banchi; sono esseri umani impegnati in una relazione oltremodo pericolosa: quella educativa. Siamo certi che una lezione a distanza, svolta in totale serenità, sia a prescindere meno proficua di una lezione in presenza imbalsamata, finta, innaturale, in un’aula dove non si può andare alla lavagna né avvicinarsi al professore per chiedere qualunque cosa; dove non si può dare una pacca sulla spalla al migliore amico; dove l’incontro di sguardi, sopra le mascherine, è un incontro di sguardi terrorizzati? Se la pandemia è paragonabile a una guerra, l’alternativa alla DAD è il nulla.
Colpisce il tono, insieme aprioristico, apodittico e casuale, dei pronunciamenti sulla scuola: si fissano e si cambiano ripetutamente date e percentuali di previsti ritorni, dei quali a molti sfugge l’asserito fondamento scientifico. Ci si chiede, ad esempio, perché si dovrebbe tornare in presenza in una certa data, e non una settimana prima o un mese dopo; perché in quella percentuale, e non in una maggiore o minore, di poco o di molto; i tribunali sentenziano che le scuole riaprano dalla sera alla mattina, in seguito a ricorsi fatti da alcuni genitori, mentre altrettanti rifiutano categoricamente di mandare i propri figli nelle scuole riaperte, e invocano la DAD. Nelle regioni dove le lezioni sono riprese da pochi giorni, si moltiplicano le classi in quarantena, gli studenti e i docenti fragili, o conviventi con persone fragili.
Nelle molte voci che si sommano e si annullano in questo coro assordante, sembra che scarseggi la consapevolezza di come davvero funzioni una scuola, di quale ne sia la delicata e complessa organizzazione: si crede che sia possibile cambiare tempi e orari per un migliaio di studenti e un centinaio di docenti – a volte impegnati in due o tre scuole - in poche ore, e si crede che questa dilatazione o restringimento dei tempi sia irrilevante per la qualità della vita e del lavoro degli studenti stessi, e dei loro docenti. Si chiede ai professori di imparare una nuova modalità di lavoro, e quando ne divengono padroni, con tempo e fatica, quando organizzano diversamente le proprie lezioni, trascorrendo le giornate davanti a un PC, si dice loro che quella che fanno – la DAD, appunto - non è scuola, bensì un volgare surrogato, o peggio: non è la soluzione di un gigantesco problema, ma è un problema essa stessa. 
Dopo un’estate trascorsa a misurarsi in singolar tenzone con problemi insolubili – la dilatazione fisica di spazi rigidi come le aule – con l’ausilio improvviso e imprevisto di occasionali miraggi, dall’incerto statuto ontologico – chi ricorda il cruscotto, che avrebbe dovuto fornire una risposta a tutti i problemi organizzativi? – dopo avere compilato infiniti questionari, rispondendo a domande sulla quantità di caserme, chiese, teatri o tensostrutture necessarie per far tornare gli studenti “in sicurezza”, dopo notti agitate da incubi meccanici, chi nella scuola lavora quotidianamente, occupandosi dei problemi di ogni singolo studente – di connessione, di motivazione, di dispositivo o di orientamento psicologico e didattico - chiede adesso due cose: vaccini, per poter tornare davvero “in sicurezza”, e rispetto.


* Dirigente del Liceo Alberti di Napoli

© RIPRODUZIONE RISERVATA