Débacle annunciata che il Pd non ha saputo evitare

di Mauro Calise
Lunedì 26 Settembre 2022, 23:46 - Ultimo agg. 27 Settembre, 06:30
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Questa volta, era tutto già scritto. L’algoritmo del Rosatellum condannava alla sconfitta chi non si fosse coalizzato. Lo sapevano tutti a menadito. Perché, allora, la leadership del centrosinistra è andata a sbattere? Come è possibile che il ceto politico più esperto e collaudato del nostro Parlamento non abbia previsto che il pentolone del draghismo avrebbe prodotto e fatto implodere le spinte che abbiamo visto domenica nell’urna? La vera domanda resta questa. Mettiamo da parte le accuse – reciproche - di tradimento e le rivendicazioni di coerenza, armi retoriche che possono servire al più a strappare un applauso. Certo non a giustificare – per una forza di centrosinistra - di avere spianato la strada a una premier di destra. 

La logica del potere tracciava due traiettorie inequivocabili. Cosa avrebbe dovuto fare Calenda, che già dalla sfida romana aveva scandito a chiare lettere il suo programma neo-centrista e certo non lo avrebbe abbandonato per fare un piacere a Letta, e ai suoi alleati della sinistra radicale? E cosa mai avrebbe potuto fare il povero Conte, relegato dai media e dall’establishment a gestore fallimentare di un partito che tutti disprezzano, tranne gli elettori indigenti delle metropoli meridionali? Starsene il più a lungo possibile a prendersi i no-thanks di Draghi, e magari scusarsi con Di Maio se, in un partito personale, di leader ce ne può essere uno solo? 

La decisione di Conte di impuntarsi e provare a recuperare visibilità e radicalità era, dunque, del tutto prevedibile. E visto che il Pd aveva investito tutte le sue carte sul cosiddetto campo largo, avrebbe dovuto per tempo preparare le contromosse. Avere nel cassetto un piano B, con cui dare abbastanza spago all’alleato per evitare che si spezzasse la corda. Invece. Invece è cascato dalle nuvole. Dalle nuvole del draghismo in cui si era comodamente appisolato. Come se non sapesse – peraltro – che nel giro di qualche mese quel sogno sarebbe comunque evaporato. E al redde rationem coi grillini si sarebbe comunque arrivati. 

A quel punto, senza un piano B e senza il coraggio di inventarselo, la frittata era bella e fatta. E si può stendere un velo pietoso sul valzer con Azione e la Sinistra, tanto non sarebbe cambiato granché. Il Pd, in un paio di settimane, ha stravolto la sua strategia.

E si è arroccato nel suo fortino. Lasciando alla Destra il governo, a Calenda la frontiera centrista, e ai Cinquestelle le praterie meridionali. Un capolavoro destinato a diventare un case study di autodafé nei manuali di scienza politica.

La domanda, però, resta sul tavolo. Prendersela con l’insipienza e la vis autodistruttiva di una intera classe di partito non è una risposta convincente. La scorciatoia di Cipolla non si addice alla nomenclatura del Pd. No. Lo sapevano, lo sapevano tutti che sarebbe finita così. Ma non erano in condizione di evitare il precipizio in cui sono caduti. Non certo per i motivi ideali che sono stati – e continueranno ad essere – addotti a nobile giustificazione. Ma per una ragione più banale e, ovviamente, brutale. Perché non c’è nel Pd un leader capace di virare – se necessario - bruscamente e imporre le proprie scelte all’oligarchia che continua da trent’anni a gestirne l’immobilismo. 

È sbagliato – oltre che ingeneroso – prendersela con Enrico Letta. Come lui, tutti i segretari precedenti sono stati ostaggio del potere di veto dei propri boiardi. Con l’eccezione di Renzi, che sembrava averla spuntata ed è finito come è finito. In un sistema politico in cui – da un quarto di secolo – si vince o si perde a seconda del leader che metti in campo, solo il Pd ha continuato a difendere il tabù della direzione collegiale. C’è sempre un noi di copertura, una responsabilità impersonale al posto del nome e cognome con cui gli altri partiti si rivolgono all’elettorato. «Meno male che Silvio c’è» ha retto per più di vent’anni, per cedere il posto a Salvini e poi stendere il tappeto rosa a Giorgia.

Le vere novità di questo voto si chiamano Calenda e Conte. Non è una sindrome del Belpaese. È ciò che accade in tutto l’Occidente, e in buona parte dell’Oriente. Tranne che nel Pd. Ora che, dopo la botta, si aprono le procedure del Congresso e iniziano i rituali del prossimo futuribile rinnovamento, è possibile che sposteranno un po’ i programmi, qualche virgola dell’organizzazione. Staranno, però, tutti attentissimi a non eleggere un vero capo. Ma un nuovo capro espiatorio.

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