Il «santino» di Dostoevskij che semina solo discordia

di Fabrizio Coscia
Sabato 2 Aprile 2022, 00:00 - Ultimo agg. 06:18
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Da una quindicina di giorni, ormai, tutte le mattine sono accolto dall’enorme faccione barbuto e accigliato di Dostoevskij, che si staglia dalle mura della mia scuola. È il ritratto che l’artista Jorit ha scelto di raffigurare nell’ambito di un progetto finanziato dalla Regione Campania, e che sarà presentato ufficialmente martedì mattina all’Istituto Righi di Napoli, con la presenza delle istituzioni. Noi docenti, naturalmente - soprattutto noi di lettere - siamo felici di un «logo» così rappresentativo: il volto di uno scrittore mitico, che ha cambiato il modo di concepire l’uomo, un autore russo, ma senza dubbio un patrimonio dell’umanità. Tanto più che la scelta di Jorit è arrivata in seguito alla polemica suscitata dalla decisione presa dall’Università di Milano-Bicocca di bloccare un corso che avrebbe dovuto tenere Paolo Nori proprio su Dostoevskij, ritenuto inopportuno a causa della guerra in corso (con largo seguito di polemica social e mediatica, ritrattazioni tardive, ecc.). 

Ecco, allora, che il murale della mia scuola ci accoglie tutte le mattine anche come vessillo di libertà di pensiero e in polemica contro l’odiosa «cancel culture». Ne siamo fieri e convinti. O almeno lo eravamo. Fino a quando, una settimana fa circa, come ha riportato per primo questo giornale con un articolo di Mariagiovanna Capone, la notizia arriva a Mosca, diffusa dal tg della tv governativa, lo stesso tg che abbiamo conosciuto per la clamorosa protesta della giornalista Marina Ovsyannikova con il cartello contro la guerra. E viene commentata poi dallo stesso Putin. Che cosa ha detto Putin? Che il murale napoletano è un segno di speranza. Ma speranza di cosa? La speranza che attraverso la cultura si faccia strada la «verità». Non credo che Jorit abbia capito il peso di queste parole, la gravità di questa strumentalizzazione. Se le avesse capite, non avrebbe affermato sulla sua bacheca Facebook, un po’ gongolando, di aver fatto più lui per la pace con questo murale che il nostro governo, attribuendosi addirittura il merito di un’apertura di Putin all’Occidente (le ha capite benissimo invece la preside Giovanna Martano, che ha dichiarato di essere con l’Ucraina senza se e senza ma, accusando Putin di aver iniziato una guerra «scandalosa»). Ma l’ingenuità dello «street artist» ci aiuta a riflettere sulla difficoltà delle scelte, nei momenti critici che la Storia ci impone. Un altro grande della letteratura, il nostro Dante, non esitava a condannare nel girone degli ignavi quelli che hanno vissuto «sanza infamia e sanza lodo». Oggi avrebbe detto «né con né con». 

Che cosa è la verità per Putin? («Quid est veritas»? chiedeva Pilato a Gesù, senza ricevere risposta). È la verità della sua propaganda, a cui ha finito per credere lui stesso, in un fenomeno tipico di autoinduzione che ha spiegato benissimo il premio Nobel per la Pace Dmitrij Muratov, direttore della «Novaja Gazeta», il giornale indipendente russo, il giornale di Anna Politkovskaja e di altri cinque reporter uccisi, costretto pochi giorni fa a chiudere per le restrizioni censorie del Cremlino.

Di quella propaganda fa parte anche Dostoevskij, e il nostro murale. Dire, come ha affermato Putin, che lo scrittore russo è stato «ormai cancellato in Occidente» è una colossale scempiaggine. L’episodio della Bicocca è stato ridicolo, più che grave, e marginale. Chi si sognerebbe di cancellare Dostoevskij? Però bisognerebbe ricordare anche che Dostoevskij non è certo lo scrittore dello slogan pop «La bellezza salverà il mondo». (La frase, che lo stesso Jorit ha scritto accanto al murale, non è mai stata pronunciata dallo scrittore, semmai dal protagonista del romanzo «L’idiota», il principe Myškin, a cui viene solo attribuita, ma lui, quando qualcuno gliene chiede conferma, non risponde, proprio come Gesù alla domanda di Pilato). 

Bisognerebbe ricordare che Dostoevskij, come Putin sa bene, è stato anche il più convinto sostenitore della triade autocrazia-ortodossia-nazionalità dell’impero zarista (dopo l’iniziale e giovanile simpatia per le idee progressiste che gli costarono la condanna a quattro anni di lavori forzati in Siberia). Bisognerebbe ricordare che vedeva nell’Europa e nell’Occidente l’origine di tutti i vizi, che è stato uno spregiatore di ebrei e polacchi, che invitava tutte le popolazioni slave a porsi sotto l’egida della Madre Russia, e incitava alla deportazione in Turchia di tutti i tartari della Crimea (già, la Crimea!). Questo lo rende uno scrittore meno grande? Certo che no, ci mancherebbe. Ma farne un santino non serve, soprattutto adesso. Farne un simbolo, un «ponte fra le nazioni» può creare equivoci. Non sempre cavalcare il mainstream del momento è la scelta giusta. Ecco perché, da quando Putin ha parlato del murale, elogiandolo, confesso che essere accolto tutte le mattine dall’enorme faccione barbuto e accigliato di Dosto, che si staglia dalle mura della mia scuola, mi procura un po’ di disagio.

Sono sicuro che mi passerà presto, però mi sorprendo a pensare: perché non Cechov, «il più democratico degli scrittori», come lo ha definito il russo-ebreo-ucraino Vasilij Grossman, o, come aggiungo io, il più umano degli scrittori, il più fraternamente vicino agli umili, ai nascosti, agli sconfitti? O perché non Tolstoj? Il Tolstoj di «Chadzi-Murat», del «Prigioniero del Caucaso», o di quel breve e meraviglioso racconto «Dopo il ballo», che denuncia le violenze dell’esercito zarista contro i ceceni, che è capace di essere dalla parte del nemico, di identificarsi con loro e compatirne la sofferenza, come solo i tragici greci lo sono stati. Non sono scrittori russi meno grandi di Dostoevskij e magari Putin non avrebbe messo becco, non avrebbe piantato la sua bandierina ideologica, usando perfino il murale di una scuola di Napoli per la sua propaganda. E noi e i nostri alunni avremmo iniziato le nostre giornate più sollevati. Perché è soprattutto di questo che abbiamo bisogno, in questi giorni: di umanità, di fratellanza, di compassione.
 

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