Il peso di Draghi
e i partiti senza voce

di Mauro Calise
Lunedì 23 Agosto 2021, 01:00
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Durerà ancora qualche settimana, o poco più, il frame mediatico che ha accompagnato la disfatta dell’Afghanistan filo-occidentale: i diritti civili cancellati, la figuraccia di Biden e degli Usa. Poi, i drammi umani di questo paese di 40 milioni di abitanti verranno inghiottiti nella voragine della disperazione quotidiana di tanta parte dell’Asia, e dell’Africa. Ciò che emergerà, e terrà banco, sarà il nuovo ordine geopolitico che si sta delineando. Coi talebani 2.0 a gestire un potere strategico, tra narcotraffico e resilienza terrorista, e le grandi potenze impegnate a schierarsi sul nuovo scacchiere. L’America acciaccata, il Pakistan bifronte, la Cina neo-colonialista, la Russia guardinga. E l’Europa di Mario Draghi.

Da questa prima, incandescente crisi internazionale esce confermata la tesi che il sovranismo è tornato in campo. Ma con vesti del tutto diverse da quelle del ribellismo populista, il revanchismo dei colletti blu e delle classi medie impoverite dal globalismo incontrollato. Oggi, al centro della scena, sono tornati i capi di Stato. Perché sono stati gli stati a metter mano, rapidamente e generosamente, alle casse per contrastare il bulldozer della pandemia. E sono i capi di governo a intavolare i vertici in cui si prendono – come ormai non si faceva da decenni – le grandi decisioni che orientano le politiche pubbliche mondiali. A questi tavoli non conta il consenso volatile degli elettorati social, le promesse a presa rapida e in caduta libera, il pedigree di homines novi. Al contrario, conta il prestigio conquistato in decenni di carriera, e di presenza autorevole nei gangli finanziari e politici per cui passano le sorti del pianeta. In questi gangli, Mario Draghi è di casa.

È stata sua l’iniziativa di aprire, subito, una fase nuova, in cui non fossero le scelte isolate a prendere il sopravvento, ma si cercasse di coordinare le policies – diplomatiche ed economiche – con cui cercare di fronteggiare la cascata di conseguenze che già si intravvedono a valle del disastro militare e morale americano.

La prima riguarda i profughi, che si annunciano in centinaia di migliaia, e rispetto ai quali non si può pensare di utilizzare lo stratagemma dello scaricabarile. Esaurito lo sdegno umanitario per le vittime all’aeroporto di Kabul, chi e come gestirà e accoglierà l’esodo degli sconfitti, e dei tanti che proveranno a approfittare della guerra per scappare dalla povertà?

La seconda è il collasso dell’immagine che tutto l’Occidente subisce nei confronti del resto del mondo. Una perdita di affidabilità che potrebbe innescare una reazione a catena in tante nazioni che si trovano in bilico tra l’arretratezza tribale e la speranza – o illusione – di imboccare la strada dell’emancipazione. Si fa presto a dire al mondo che la democrazia non si può esportare, e – purtroppo – è un’amara verità. Ma, dalla fine della seconda guerra mondiale, è la prima volta che troviamo il coraggio di pronunciare un verdetto che cambierà il corso della storia. Questa durissima verità potrebbe innescare, tra le masse diseredate, un incendio di proporzioni bibliche. È bene cercare di capire in fretta chi è interessato a spegnerlo, e chi, invece, ad alimentarlo.

In questo scenario, i partiti sono destinati a diventare ancora più muti del solito. Da tempo non sono più i depositari dei grandi apparati ideologici coi quali orientavano – o cercavano di orientare – i comportamenti e i moti popolari. E nella crisi pandemica è cresciuto enormemente il potere dei leader di fronte ad apparati che riescono, a malapena, a brigare per la propria sopravvivenza. Col deflagrare di questa bomba internazionale, i partiti appaiono ridimensionati, esautorati. Assisteremo a qualche colpo di coda, qualche scaramuccia d’aula, qualche tentativo di sgambetto. Ma la sfida del nuovo sovranismo è passata di mano. Sono gli Stati, e i loro Capi, a giocarsela. Per l’Italia, è un’occasione propizia.

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