Due Napoli? Ne esistono mille ma si contaminano tra loro

di Guido Trombetti
Martedì 10 Gennaio 2023, 23:45
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La fiction “La vita bugiarda degli adulti” ha innescato, sul Mattino, una intensa discussione su Napoli. E su quante parti compongano la società napoletana. Talvolta liquidando troppo frettolosamente il saggio di Domenico Rea “Le due Napoli”. Merita un rigo di premessa il romanzo di Elena Ferrante. Che - secondo un mio amico sommo letterato - nelle prime settanta pagine si regge magnificamente intorno allo straordinario personaggio della zia in un contesto di confronto/scontro tra la Napoli di Posillipo, quella dell’Arenella e quella dei quartieri più degradati. Poi d’improvviso la zia scompare. E restano molte pagine di una insolita modestia per una scrittrice della tempra della Ferrante. Nella fiction si riflettono inevitabilmente pregi e difetti del romanzo. 

Ed essa dopo una prima parte di grande impatto narrativo - magari anche con eccessi che rischiano di sfociare in una inutile volgarità - scade nel raccontino. Non credo però che gli sceneggiatori ed il regista avessero l’ambizione di intervenire sul tema della scissione della città in due o più sottocomunità, magari confliggenti. E a dire il vero un po’ tutta la discussione che ne è nata mi è parsa qui e lì forzata. Artificiale. La Napoli di Posillipo, di Poggioreale o di San Giacomo dei Capri sono entità sociologicamente ed economicamente distanti. Questo è ben noto. Ma è vero qui come a New York, a Londra o a Parigi. A Napoli piuttosto, secondo me , contrariamente a quello che leggo, restano in vita molti canali di comunicazione e di contaminazione tra i vari strati sociali. Aspetto che trova la sua massima espressione nella struttura sociale che popola il centro storico. Si è parlato molto de Le due Napoli di Rea. Il saggio va inquadrato nel periodo drammatico del dopoguerra nel quale egli lo scrive. E nell’esigenza che egli avverte di strappare il velo tra la trasfigurazione letteraria di Napoli e la sua realtà effettiva. Rea insomma aggredisce lo storytelling che trasformava i bassi quasi in luoghi ameni nascondendone lo squallore del quotidiano. Di ciò incolpando gli scrittori napoletani da Di Giacomo ad Eduardo. Le due Napoli” di Rea sono la città narrata, in particolare dagli autori cittadini, e quella reale. Con l’effetto che lo storytelling si è imposto trasfigurando la realtà di Napoli agli occhi di tutto il mondo. Il racconto di una Napoli che “sottomette la miseria al colore”. E sottolineiamo che Napoli è stata sempre una fonte ricca per lo storytelling.

Romanzi, film, pièce teatrali, sceneggiate, opere musicali, tradizione orale i veicoli della narrazione. Napoli ha sempre ispirato racconti.

Della Napoli reale non si narra , sosteneva Rea, perché per certi versi gli stessi napoletani si sono convinti di essere quelli dello storytelling. E addirittura i napoletani insorgono se qualcuno si azzarda a negare la fondatezza della Napoli narrata. Una sorta di enclave esclusivo nel panorama mondiale.
E proprio questa ultima mi sembra una delle caratteristiche peculiari della città. Una caratteristica unificante. Scriveva La Capria “Il pericolo è questo, che Napoli offesa e troppo maltrattata si chiuda risentita in se stessa. Che preferisca sue ferite. Ma la verità è che non può, perché da sola non potrebbe mai farcela, non ne ha la forza morale e la possibilità materiale”. Una disamina, per certi versi simile, la compì tempo fa in un editoriale Paolo Macry. Napoli è diventata politicamente provinciale. “Vive e pensa e lavora nei propri confini… Sembra rassegnata ai limiti della propria realtà strutturale e culturale… Bisognerà recuperare l’ottica della nazione e dello Stato”. Insomma non due o tre Napoli. Ma una. Quella, lo ripeto, che si guarda come un “enclave” a sé stante sul pianeta. Al di fuori dell’Europa. Dell’Italia. Addirittura del Mezzogiorno. E che fa quadrato nei confronti di chiunque voglia rompere questa armonia.

Chiudo con una osservazione. Non è rimasto escluso dal dibattito il rimbrotto alla società civile. Il silenzio, l’astrattezza della società civile napoletana. Devo confessare un mio limite Non so che cosa si intende per società civile. Diceva Paul Ginsborg, non è facile capire dov’è e neanche cos’è. I vu cumprà fanno parte della società civile? O bisogna avere almeno la laurea triennale per esservi ammessi? Quando parlo di società civile cito sempre una eccezionale vignetta di Altan: un signore di mezza età (appartenente alla società civile) dice alla moglie casalinga (e quindi esclusa): “Dobbiamo aprirci alla società civile”. E lei gli chiede: “Vengono loro da noi, o andiamo noi da loro?”.
Insomma forse non esistono due Napoli perché ne esistono mille. Che però si fondono e si mescolano l’una con l’altra nella dimensione browniana e pulviscolare nella quale scorre la vita quotidiana.

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