Se le ipotesi di recessione ora fanno meno paura

di Enrico Del Colle
Giovedì 2 Febbraio 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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I dati economici diffusi in questi giorni sembrano avere un forte impatto, non solo mediatico, sui cittadini: ci riferiamo a quelli riguardanti la ricchezza prodotta nel Paese, la dinamica occupazionale e l’inflazione. Su questi temi, tra loro fortemente collegati, i commenti degli osservatori interessati sono diversamente orientati, nel senso che ci sono posizioni improntate ad un cauto ottimismo circa un’Italia in ripresa e altre impregnate, invece, di un non troppo velato pessimismo. Vediamo di fare un po’ di chiarezza: innanzitutto desideriamo schierarci tra i “cauti ottimisti”.

E per legittimare una tale collocazione ci avvaliamo di tre direttrici di ragionamento, non sempre tenute in considerazione nella fase interpretativa (e decisionale) delle realtà osservate. Esse sono incentrate su un preliminare richiamo delle ipotesi sulle quali si fondano le suddette informazioni quantitative (i risultati ottenuti valgono soltanto nel loro ambito e non vanno “universalmente” estesi), accompagnato sia dalla distinzione, in chiave esplicativa, tra un’analisi dei dati assoluti e relativi (quest’ultimi più espressivi e più confrontabili, mentre quelli assoluti indicano l’ordine di grandezza e, quindi, la reale importanza del fenomeno esaminato) e sia dal diverso significato investigativo e previsivo di un commento dei dati costruito sul breve invece che sul lungo periodo.

Fatta questa doverosa premessa, entriamo nel merito, iniziando dalla ricchezza prodotta nel Paese (il Pil): l’ultimo dato comunicato dall’Istat (quarto trimestre del 2022) registra una diminuzione dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e non pochi analisti hanno valutato con una certa apprensione questo risultato; ovviamente sarebbe stato meglio un Pil in crescita ulteriore (dopo sette trimestri consecutivi), ma se allarghiamo l’analisi ad un tempo più lungo e se, contestualmente, ricordiamo che esso è stimato in volume e non in valore (quindi, non “intaccato” dall’inflazione) rileviamo un Pil, riferito all’intero 2022, pari a poco più di 1740 miliardi, con una crescita vicina all’1% rispetto al Pil del 2019 (poco meno di 1730 miliardi) e del 2018 (appena sopra ai 1720 miliardi); in altre parole, è stato recuperato pienamente il livello di ricchezza prodotta prima del Covid e, anzi, è stato superato.

Anche esaminando la situazione occupazionale servono alcune precisazioni: l’ultimo dato Istat su base mensile (dicembre 2022) ha certificato un leggero aumento del numero degli occupati (più 37mila) ed è stato giustamente interpretato come un segnale incoraggiante; se, però, estendiamo lo sguardo all’ultimo anno scopriamo che 8 volte su 12 il dato mensile è risultato superiore a quello precedente – mentre nelle altre 4 volte è risultato inferiore - a conferma di una certa volatilità dei dati mensili (pure a causa dell’inevitabile errore statistico, vista la natura campionaria dell’indagine) e, quindi, non sempre adeguati a misurare l’andamento dell’occupazione.

Pertanto, per dare un irreprensibile giudizio sulla dinamica evolutiva del lavoro occorre “accendere i riflettori” su un periodo più lungo e allora scopriamo che, sia in termini assoluti che relativi, la situazione attuale è la migliore degli ultimi anni.

Infatti, con 23,2 milioni di occupati siamo tornati ai livelli pre-Covid, con un tasso che, anche per fattori demografici, si è stabilizzato saldamente sopra il 60%. Ma il miglioramento più visibile proviene dall’esame dei dati disaggregati: i dipendenti sono più di 18,2 milioni e poco meno dell’85% è rappresentato dai lavoratori a tempo indeterminato, in crescita del 5% circa rispetto al quinquennio precedente (si riducono i lavoratori a tempo determinato, meno 40mila unità e quelli indipendenti, meno 300mila) in contrasto, con alcune “superficiali” letture - incautamente “catastrofiste” - circa l’aumento del precariato e l’abbandono di migliaia di posti di lavoro.

Sulla variazione dei prezzi, poi, tanto “avvertita” in questi momenti dalle tasche degli italiani, constatiamo come il tasso d’inflazione - rilevato nei comuni capoluogo di provincia, dove vive meno della metà dei residenti nel Paese e si sperimentano in media prezzi più alti – si sia ridotto (su base annua ora è pari a 10,1% contro 11,6% di fine 2022); questa è un’ottima notizia (anche se siamo ben lontani dal 2%, obiettivo della Bce), ma lo è ancora di più quella relativa ai pesi delle divisioni di spesa (poco considerati nelle analisi, nonostante la loro tangibile rilevanza) che in qualche misura “avvisano” circa la tenuta del potere d’acquisto: ebbene, la quota di spesa destinata ai beni alimentari si è ridotta (ora è pari al 17%, era più del 18% lo scorso anno) e ciò significa che l’economia delle famiglie non sta peggiorando. Insomma, con una più approfondita analisi (e interpretazione) dei dati e ascoltando anche le recenti previsioni del FMI, la ventilata recessione sembra fare meno paura.

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