Eduardo è un visionario che solo accidentalmente si esprime in termini realistici». Così scrive Corrado Alvaro e la fortuna internazionale delle opere di De Filippo dimostra che è vero. Nessun dramma e nessuna commedia, infatti, hanno avuto espansione nella storia e nello spazio senza portare in sé un alto quoziente di visionarietà. La visionarietà si sottrae al concetto di tempo.
Perché il visionario produce materiali interiori ancestrali destinati a durare per sempre. È questo il motivo per il quale Caravaggio e Picasso sfidano secoli e decenni. E che cos’è il poema di Dante se non una monumentale architettura visionaria? Il teatro di Shakespeare oscilla tra sogni di una notte di mezza estate e fantasmi di padri che tornano a provocare i figli invocando vendetta. Il teatro di Eduardo, come quello del bardo è anch’esso un pendolo che oscilla tra sogni cabalistici e fantasmi che assediano antiche case; un pendolo che oscilla tra voci di dentro e grandi magie. Che i sogni e i fantasmi si infiammino sugli spalti di un castello o attorno al tavolo sgangherato di una cucina negletta non cambia niente.
A tutto il suo lavoro di drammaturgo e attore Eduardo applicò un duro lavoro autoanalitico, creando una psicoanalisi inversa. Quando ci si reca da un analista, a seconda delle scuole ispirative cui egli appartiene, è quasi inevitabile addentrarsi nel materiale onirico del paziente. Eduardo, invece, produce la visione di una storia, convoca i suoi attori, ma non chiede loro di analizzarla. Domanda invece ad essi di sognarla per la seconda volta. Gli attori si presentano al pubblico e non gli chiedono un’attività analitica; sperano al contrario, che gli spettatori sognino per la terza volta.
La visione artistica di Eduardo, insomma, non va decodificata attraverso sistemi razionali, ma ingrandita e moltiplicata grazie alle intelligenze sensibili e irrazionali dei singoli e delle collettività. Per queste non trascurabili ragioni, Eduardo non è di ieri, non è di oggi: è di sempre. La fioritura inesausta di messinscene e film intorno alla sua scrittura dimostra che il grande autore era lontano dalla consolazione lineare del tempo, di quell’adagio quotidiano che mira a tenere in ordine quel che è successo ieri da quel che succede oggi. De Filippo crede fermamente in un tempo circolare con al centro un uomo che è equidistante da presente, passato e futuro.
Il suo rigore nella vita e nel lavoro ne fanno uno sciamano dell’arte. Il fine dei maestri spirituali dell’Oriente è la disidentificazione. Ma per riuscire a disidentificarsi bisogna prima identificarsi e farlo bene. Il presunto realismo di Eduardo: sedie di paglia, letti disfatti, porte scolorite, serve soltanto a far risaltare la potenza del sogno, giocando come un luminoso senso contrario. De Filippo è erede tecnico di una tradizione teatrale napoletana. Ma ogni tradizione ha una tradizione che la precede. Soprattutto ogni tradizione, quando nasce, è un atto eversivo che determina altri atti eversivi, cioè ancora, altre tradizioni.
Eduardo è però anche erede di una tradizione spirituale greco-napoletana fatta di spiriti, sogni platonici, colloqui con i morti. Il suo valore più prezioso è la contestazione delle comode coordinate aristoteliche della vita: l’alto, il basso, il nord, il sud, il passato, il presente. Il lavoro di Eduardo è una fuga nell’oltre, non per risolvere il mistero, ma per ingrandirlo. La sua abnegazione e il suo essere così vivo ci dice che l’arte non è fatta per guarire le ferite, ma per godere della bellezza del sangue.