Il naufragio del patto tra politica e “civismo”

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 19 Settembre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 08:00
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Nel marzo del 2018 Matteo Salvini strappò a Forza Italia e a Silvio Berlusconi lo scettro di leader del centro destra. Più di quattro milioni di voti, il 17 per cento del consenso elettorale, 124 seggi solo alla Camera, con un incremento (sul partito ridotto all’osso e sul punto di scomparire che era l’eredità nordista lasciata da Bossi e compagni) di ben 104 deputati. 

Quel successo passava tra le altre cose soprattutto dal Sud, dove la Lega, che fino a quel momento si era caratterizzata per uno spiccato e urtante disprezzo antimeridionale, mutato radicalmente il suo linguaggio, ottenne un milione di voti, da l’Aquila a Lampedusa, da Napoli, a Foggia, a Palermo.

Nel Sud compattamente grillino, sotto lo strato uniforme della protesta Cinquestelle, si stendeva un livello più sottile e rado ma altrettanto significativo, quello del voto leghista. Doveva essere la prima ossatura di un partito di ambizioni nazionali, non più legato al Nord e che faceva della rivendicazione di sovranità l’asse strategico attorno al quale costruire la sua nuova identità. 

Dopo poco più di tre anni, al primo appuntamento elettorale veramente significativo, il partito di Salvini, primo sostenitore del candidato di centrodestra a Napoli, non ha una lista propria in gara. E non stiamo parlando di un piccolo comune. Stiamo parlando di Napoli. Sembra difficile pensare ad un partito nazionale senza la più importante città del Mezzogiorno continentale, che nel bene e nel male il Sud simboleggia e riassume in molte delle sue contraddizioni. Eppure a Napoli, la Lega - Salvini premier (o come ora si chiama la fu Lega Nord) non c’è, non correrà per la prima poltrona in città. E per un leader incalzato a destra da Giorgia Meloni, messo in un angolo dal presidente del Consiglio, schiacciato tra i corni di un’alternativa ben poco allettante (farsi il rappresentante di settori marginalizzati dell’opinione pubblica contro green pass e obbligo vaccinale o accodarsi al Pd nell’obbedienza al governo) si tratta del segnale ulteriore di difficoltà ogni giorno più gravi.

L’esclusione, confermata da una sentenza del Consiglio di Stato, è soprattutto impietosa perché sanziona l’evanescenza di un progetto di leadership nazionale privo del supporto di una macchina organizzativa degna di questo nome. Perché quello che è successo a Napoli è innanzitutto l’attestazione clamorosa della mancanza di una struttura sul campo che sappia dare concretezza alle ambizioni politiche del capo. I famigerati leghisti napoletani non solo hanno mancato la scadenza ma quando si sono presentati davanti agli uffici competenti, tra la documentazione si sono dimenticati di allegare il contrassegno, nientemeno che il simbolo, quello che permette all’elettore di riconoscere il partito e di orientare così in modo chiaro la propria scelta. Non proprio una questione secondaria come è facile intuire.

In questi casi le cose farfugliate dopo sono tante, la democrazia sempre in pericolo, ma la verità è che sul piatto delle ambizioni elettorali della Lega, a parte il nome di Salvini, non c’è nient’altro. In tre anni e più da quel pur significativo successo elettorale, la destra leghista non si è tradotta a Napoli in una realtà organizzativa degna di nota, capace cioè di fare fronte in modo competente, efficiente ed efficace, a quelle scadenze decisive che sono gli appuntamenti elettorali e in cui concretamente consiste l’esercizio della democrazia.

Salvini non è riuscito a risolvere in tutto questo tempo (o non vi ha prestato l’attenzione dovuta) il problema della selezione e della formazione di un ceto politico locale. Non ha uomini capaci, né si è preoccupato di averli. 

Dietro questo scacco clamoroso si possono immaginare i movimenti delle fazioni, gli scontri feroci tra capi bastone, nomi scomparsi all’ultimo minuto dalle liste, telefonate frenetiche, divieti di presentarsi all’ufficio elettorale, mediazioni e accordi, ritardi su ritardi. Ma questo vale per tutti. L’assenza del simbolo, il disordine della documentazione, dicono invece qualcosa di più della normale routine. Dicono della pura e semplice implosione della macchina alla prima accensione. Appena messa in moto è già andata in fumo.

E così, il povero Maresca si ritrova a dover correre su una gamba sola ad un mese o giù di lì dalle elezioni. Chi se ne avvantaggerà, Manfredi, Bassolino, l’astensione? Il punto non è questo. Perché dietro la decisione di appoggiare Catello Maresca c’era innanzitutto il tentativo di instaurare un legame significativo con il mondo delle professioni cittadine, con i rappresentanti di quei ceti borghesi urbani che pigramente chiamiamo società civile, ma che rappresentano altrettanti fili per mezzo dei quali la macchina politica si connette al corpo vivo della città, dei suoi interessi e dei suoi orientamenti. La scommessa, per un partito senza un vero rapporto organico con Napoli, era di raccogliere la voce di questi ceti, mortificati da anni di amministrazione pessima, e offrire loro la possibilità concreta di un’alternativa. Non sarà così. La lista intitolata derisoriamente “Prima Napoli” non c’è e non concorre alla battaglia per il sindaco. Ancora una volta, l’appello alla società civile si è rivelato una vuota insulsaggine retorica dietro la quale la decisione di un giudice amministrativo ha fatto emergere la desolante realtà di un ceto politico maldestro e ben poco capace. La società civile non è in grado di fare il lavoro della politica e la politica non può risolversi nell’offerta di un supporto alla società civile (sempre ammesso poi che questo regga). 

L’idea che bastasse un magistrato per dare alla destra una chance, senza che questa destra portasse dal canto suo un minimo contributo di comprensione ai problemi della città, della loro origine e della loro profondità, si è rivelata un misero fallimento. Senza idee, fatalmente, non c’è nemmeno organizzazione. E così, la politica che ha abdicato a sé stessa è andata incontro al suo esito disastroso. Che altro non è che la rivelazione del nulla di cui è fatta e che nessuna società civile sarà mai in grado di surrogare. A questo punto, se la candidatura di Catello Maresca ha ancora un senso, esso risiede nella lezione che ci consegna: nell’assenza della politica non c’è che il vuoto. 

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