Elezioni, il governo deve comunque cambiare passo

di ​Alessandro Campi
Domenica 26 Gennaio 2020, 23:59 - Ultimo agg. 27 Gennaio, 06:35
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Stando ai primissimi exit poll, in Emilia Romagna è avanti Stefano Bonaccini. In Calabria, con molto più scarto, Jole Santelli. Se Salvini sperava di prendersi il Parco della Vittoria, rischia di doversi accontentare del Vicolo Corto (dove vincente sarebbe peraltro una candidata berlusconiana). Non sembrerebbe riuscita la spallata che doveva mandare a casa, oltre al socialismo appenninico al potere da decenni, anche il governo giallo-rosso al comando da pochi mesi. 

L’attesa per questo voto era grandissima, probabilmente eccessiva quanto ai suoi possibili effetti sulla politica nazionale. Lo dimostra l’affluenza alle urne. Nel 2014 (quando Bonaccini vinse per la prima volta) aveva toccato il minimo storico: solo il 37,7% degli aventi diritto era andato ai seggi, un misto di stanchezza e disaffezione incredibile in un territorio che da sempre gode d’un grande benessere collettivo e d’un radicato sentimento civico. Stavolta ha votato una quota vicina all’afflusso delle ultime europee: 67,3%. Lo scontro è stato molto (troppo) polarizzato su base nazionale e l’incertezza era, sondaggi alla mano, in effetti grande: è stata una di quelle occasioni in cui l’elettore ha l’impressione che il suo voto conti (politicamente) e possa anzi essere decisivo (su piano dei numeri). E dunque va al seggio con grande motivazione. In Calabria, dove il risultato sembrava più scontato e c’è stato meno accanimento ideologico, non si è avuto lo stesso effetto: nel 2014 ha votato il 44% dei cittadini, stavolta più o meno la stessa percentuale.

E proprio questa massiccia corsa al voto (soprattutto nelle zone urbane storicamente più orientate a sinistra) potrebbe aver favorito Bonaccini. La sua missione, per ribaltare i sondaggi a lui lungamente sfavorevoli, era chiara ma tutt’altro che semplice: riportare a sinistra quegli elettori che nel frattempo erano andati a destra, prendersi il più possibile dei voti grillini in libera uscita (anche attraverso il meccanismo del voto disgiunto) e, soprattutto, dare nuove motivazioni al popolo storico della sinistra affinché riscoprisse il giusto della partecipazione e dell’impegno.

Su quest’ultimo punto, in caso di vittoria, bisogna riconoscere che un aiuto obiettivo gli è venuto dal movimento cosiddetto delle ‘sardine’: grazie all’intuizione quasi goliardica in chiave anti-salviniana di quattro ragazzi bolognesi, da subito ben sostenuta dalla macchina politico-mediatica della sinistra, si è creato un clima di mobilitazione e d’attivismo che ha riempito le piazze emiliano-romagnole e che per contagio ha investito anche altre parti d’Italia.

Ma diamo anche a Bonaccini quel che gli spetta. Innanzitutto, l’essere considerato trasversalmente un buon amministratore qualcosa dovrebbe aver contato a suo favore. Quando poi ha fiutato l’aria per lui pericolosa ha fatto una scelta radicale. Per dirla in soldoni, s’è astutamente e sobriamente “padanizzato”: niente simboli del Partito democratico nella sua propaganda, il verde già leghista scelto come colore della sua campagna elettorale, continui richiami all’orgoglio emiliano e alle radici popolari, l’ammissione implicita che sugli immigrati la sinistra ha sbagliato dal momento che “nessun Paese può accogliere chiunque”, la pubblicità a pagamento sul “Secolo d’Italia”, l’abbigliamento informale, sbarazzino e vacanziero, molto “Rimini, Rimini”, che ha esibito spesso nei comizi negli incontri elettorali. Segno che la politica identitaria tutta giocata sulle appartenenze localistiche esclusive, così come il protagonismo del leader che fa tutto da solo, sono carte che oggi non sfrutta solo Salvini: sono il codice della politica contemporanea.

Passata la grande paura, il rischio che il Pd rischia ora di commettere è scambiare una vittoria tonificante (se sarà confermata) per una vittoria risolutiva. Va bene che lo si sostenga nelle dichiarazioni ufficiali, l’importante è non pensarlo sul serio. Negli ultimi due anni e mezzo, su quattordici elezioni regionali (comprese le ultime), il centrodestra ha vinto ben 12 volte: invertire questo trend profondo non è facile, specie se il governo in carica continuerà a dare l’impressione di essere solo un governo in carica.

Stavolta sembrerebbe aver funzionato l’appello alle armi in chiave allarmistica contro il ‘barbaro’ xenofobo e un po’ fascista che stava per mettere su una terra di antiche e perduranti memorie partigiane. Ma attenzione, nel prossimo futuro, alla “sardinizzazione” del Pd e all’idea che dalla mobilitazione antifascista permanente possano nascere una politica economica per lo sviluppo o le riforme sociali di cui l’Italia ha bisogno. La piazza politica un po’ esaltata ha fatto la sua parte, da domani toccherà alla politica fatta dai partiti - a meno di non voler sposare anche a sinistra la contro-democrazia diretta grillina proprio nella fase in cui il grillinismo sta drammaticamente esaurendo la sua spinta propulsiva. 

Quanto a Salvini, che prendendosi l’Emilia Romagna avrebbe avuto sotto la sua guida tutta l’Italia che produce, un’eventuale sconfitta della sua candidata Borgonzoni dovrebbe fargli capire che i referendum su una persona stimolano simpatie ma cumulano anche le antipatie di tutti gli avversari, spingendoli a mettersi insieme. Il solo contro tutti alla fine sfianca chi lo promuove e soprattutto stanca chi è chiamato a scegliere. D’ora in avanti, il suo problema sarà mostrarsi all’altezza del 30% dei consensi che possiede: troppi per continuare a fare il capopopolo che si limita ad aizzare i bassi istinti, come ha talvolta fatto anche durante questa campagna elettorale.

Si diceva dell’eccesso di aspettative circa i possibili riflessi sul governo di questo voto amministrativo. L’eventuale vittoria di Bonaccini nell’immediato lo stabilizzerebbe, nonostante il risultato al limite del tracollo ma largamente atteso che il M5S sembra aver ottenuto (anche in Calabria è andato male): un partito senza linea politica, poco organizzato sul territorio e con troppi capi che decidono non può che perdere elettori a rotta di collo. Se confermato dallo spoglio dei voti di partito, ciò potrà naturalmente comportare qualche fibrillazione dentro l’esecutivo, con il Pd zingarettiano che alzerà sicuramente la posta nei rapporti con l’alleato grillino e con quest’ultimo che per non sparire non potrà che continuare a sostenerlo. 

Ma la vita di questo governo è legata ad altro: la mano protettrice su di esso dell’Europa e del Quirinale, la mancanza di alternative reali, l’istinto di autoconservazione dei parlamentari e, sul piano più tecnico, il referendum primaverile sulla riduzione dei parlamentari che impedisce un rapido scioglimento della legislatura. Il problema semmai per questo governo è un altro: che la stabilità faccia rima con l’immobilità. Le forze oggi in maggioranza hanno in testa un disegno politico o un programma da realizzare? Ci sarà la tanto attesa verifica (magari accompagnata da un rimpasto nel governo e dall’allargamento della base parlamentare che lo sostiene) o si continuerà con la politica del galleggiamento?

Da questo voto, se i dati saranno conferamti, più che stravolgimenti radicali sembrerebbero insomma nascere diverse sfide speculari e convergenti in vista di un voto che non sarà imminente e che si svolgerà con un nuovo meccanismo di voto proporzionale (mentre si registra un progressivo ritorno al classico schema destra-sinistra). Il centrodestra - che Salvini non è riuscito ad egemonizzare - dovrà ridefinire la sua offerta politica e rivedere i tempi della sua battaglia. I grillini, per non sparire, dovranno superare le divisioni che li hanno sin qui lacerati, trasformarsi in una realtà organizzativa solida e rendersi nuovamente riconoscibile agli occhi dei suoi storici sostenitori. Il Pd dovrà decidere se inseguire il movimentismo delle sardine o integrare il vitalismo di queste ultime in un nuovo progetto politico che non si limiti all’ennesimo cambio di nome. Il governo guidato da Conte dovrà infine farci capire cosa intende fare e mostrarci cosa sa fare.
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