Le quattro “grane” per vincitori e sconfitti

di Massimo Adinolfi
Mercoledì 20 Ottobre 2021, 00:00
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Un vento di allegra euforia sostiene la navigazione del Pd, dopo la giornata elettorale di domenica. Un risultato superiore alle più rosee aspettative. Una vittoria trionfale. Un partito che torna a prendere voti in periferia. Un elettorato che è già confluito in un campo largo e unitario, e sta più avanti dei partiti che vota: Enrico Letta non vede nuvole all’orizzonte.

Però qualcuno deve pur fare da Cassandra. E ricordare che, nonostante i begli auspici che il segretario dem trae dal voto, qualche motivo di riflessione c’è. In primo luogo, il dato dell’astensione; in secondo luogo, il fatto che gli italiani non vivono solo nelle grandi città, dove si è votato; in terzo luogo, la sostanziale stabilità delle intenzioni di voto restituite dai sondaggi.

Certo, il centrosinistra arriverà alle prossime politiche avendo incassato i sindaci di Napoli, Milano, Roma, Torino: è una bella iniezione di fiducia. Ma pensare che i problemi politici siano tutti risolti, e che vi sia già, nel Paese, una maggioranza che non vede l’ora di vedersi rappresentata anche in Parlamento è decisamente azzardato.

Poi ci sono le grane. Tanto per cominciare il Quirinale. Letta ripete giustamente che lavora per costruire il consenso più ampio possibile. Il che significa: con i voti della maggioranza Draghi, o giù di lì. Ma non si vede perché il centrodestra dovrebbe fargli questo favore, e andare diviso all’appuntamento: si è già visto che proprio bene non gli fa. 

Per giunta, è facile supporre che l’elezione del presidente della Repubblica sia il terreno in cui le forze centriste e moderate dell’uno e dell’altro schieramento proveranno a muoversi in autonomia, senza riconoscere a Letta il ruolo di king maker. Simili manovre potrebbero saldarsi con le richieste di una nuova legge elettorale. Che è la seconda grana da risolvere. Il Pd di Zingaretti la promise ai suoi elettori, mentre diceva di sì al taglio dei parlamentari. Poi, complice la pandemia, è calato il silenzio. Ora però c’è un nuovo cambio di scena, con un Pd calato nei panni del partito capace di federare un nuovo centrosinistra, il cui segretario non ha più molta voglia, se mai l’ha avuta, di cambiare la legge in senso proporzionale. Ma le sirene proporzionalistiche si faranno sentire ugualmente. Non tanto nel campo del centrodestra, le cui difficoltà nella selezione di candidati unitari si sono rivelate persino clamorose: nulla di strano se dunque vi sia chi ci fa un pensierino, sia dalle parti della Lega che da quelle di Forza Italia (e dintorni).

Ma anche tra gli alleati: fra i Cinque Stelle, che cercano di sfuggire al destino di ruota di scorta del Pd, e gli altri cespugli di centro e di sinistra, a cui il proporzionale potrebbe calzare come un guanto.

E siamo così alla terza grana, ai rapporti con gli alleati. Perché d’accordo: a sinistra del Pd, se pure c’è vita, non vi è nulla che al momento possa impensierire Letta. Ma che faranno Renzi e Calenda? E quanto reggerà Conte alla guida dei Cinque Stelle? I due lati del problema si corrispondono: più aumentano le difficoltà del Movimento, più si ringalluzziscono i centristi. E il rischio che il Pd recuperi voti solo a danno delle forze alleate è concreto. Tanto più che, quarta e ultima grana, tutte queste considerazioni politicistiche non modificano il dato principale, da cui siamo partiti. Cioè l’astensione, un bacino elettorale ristretto, un test amministrativo significativo solo per le città. La grana è dunque la capacità di conquistare consensi in settori più vasti della società e dell’opinione pubblica, in una fase in cui è Draghi a dettare il gioco e i partiti, chi più chi meno, faticano a sposarne l’agenda. 

Nel centrodestra la grana, invece, è una soltanto, ma è molto, molto più grande. Perché gli errori che hanno portato alla sconfitta elettorale non sono frutto del caso o dell’imperizia, ma di due fattori convergenti, che insieme fanno il risultato di uno schieramento ben lontano dell’unità di intenti: la competizione per la leadership fra Meloni e Salvini, da un lato, e dall’altro l’impasse strategica di una coalizione che non ha una posizione unitaria su nulla.

Che è divisa fra maggioranza e opposizione rispetto al governo Draghi. Che non vede le cose allo stesso modo né sul Quirinale, né sulla legge elettorale. Che non è in grado di sciogliere i nodi fra riflesso identitario e vocazione di governo. Che non trova un punto di equilibrio fra le posizioni moderate ed europeiste di Forza Italia, e le spinte sovraniste e dirigiste di Fratelli d’Italia. Con Salvini che fatica a decidersi se stare di qua o di là. Non ci vuole una Cassandra, basta una modesta osservazione delle cose per prevedere che, prima o poi, nel centrodestra, e segnatamente nella Lega, qualcuno dovrà provare a dare una sterzata.
 

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