Limiti (e attese) di un partito ​che non cambia

di Mauro Calise
Mercoledì 17 Agosto 2022, 00:00
4 Minuti di Lettura

C’è da credere alla sincerità di Enrico Letta, quando dice che la scelta delle nomine parlamentari del Pd sia stata molto sofferta. Il Rosatellum è stato concepito per dare pienissimi poteri al leader. E li hanno esercitati ad libitum sia Meloni che Salvini, sia Berlusconi che Conte e – nel loro piccolo – anche Renzi e Calenda. Ma Letta non è un leader, è il segretario. Ripescato da un’università francese, grazie ai suoi meriti intellettuali, e nella speranza che riuscisse a tenere insieme le correnti in cui il Pd è dilaniato. 

Fin tanto che si è trattato di mediare la linea – e i posti – di governo, se l’è cavata abbastanza bene. Oggi è chiamato alla prova del fuoco. Ribaltare un pronostico che da il centrosinistra per spacciato.

Se – come è molto probabile – fallisse, sia la destra che la sinistra del partito non esiteranno ad accusarlo di avere sbagliato strategia. Non ha retto l’accordo coi grillini, ed è saltato quello con Azione. Gli sono rimasti soltanto i sopravvissuti dell’Unione, un’alleanza che trasuda passato in un paese che vorticosamente sta cambiando. Che speranze ha di sopravvivere alla sua possibile debacle? Letta proverà a fare come Renzi che, malgrado l’esito disastroso delle elezioni del 2018, conservò un notevole controllo dei propri gruppi parlamentari, anche dopo le dimissioni. Ma lo fece grazie soprattutto alla sua personalità carismatica, e alle doti di spregiudicato manovratore dell’aula, che gli consentirono tre colpi di genio, e di teatro: mettere Matteo Salvini in fuorigioco, fare lo sgambetto a Conte premier e impedire che al Quirinale salisse un nome in salsa gialloverde. È improbabile che Enrico Letta scelga – e si riveli capace – di imbarcarsi per sentieri così spericolati.

A suo vantaggio rimane, tuttavia, lo scenario preconizzato da Calenda, quando ha sentenziato che il nuovo governo durerà al massimo mezzo anno. Sei mesi sono wishful thinking. Soprattutto se – come i pollster prevedono – Giorgia Meloni vincerà con un buon margine, non si farà sbalzare di sella così presto.

Ma le incognite – economiche e sociali ancora più che parlamentari – sono tante, e la neo-premier farà fatica ad ambientarsi in un network internazionale che, malgrado la sua buona pronuncia, le resterà ostico e ostile. È probabile che dopo una luna di miele, si apriranno le danze per provare a metterla in difficoltà. Prima all’interno del centrodestra, poi nell’establishment finanziario e in quello dei boiardi pubblici le cui nomine sono in scadenza la prossima primavera. A quel punto si schiuderà qualche varco anche per le truppe democratiche, e per il loro segretario. Saranno, però, gli stessi spazi cui abbiamo assistito in questi anni, e in cui il Pd si è fatto irretire. Illudendosi di controllare il gioco, a dispetto della sua obsolescenza: ideologica, organizzativa, elettorale. E ritrovandosi all’appuntamento decisivo del dopo-Draghi col medesimo assetto di potere che aveva una trentina di anni fa.

Il vero nodo che il Pd deve sciogliere riguarda la capacità di cambiamento. Non del paese, ma di se stesso. Dalla fine della Prima repubblica, tutti i partiti andati al governo lo hanno fatto rivoluzionando leadership, comunicazione, insediamento sociale, votanti. E la rivoluzione è stata fatta stando all’opposizione. Da Berlusconi a Salvini, da Grillo alla Meloni il successo e la sintonia popolare sono nati da una idea di partito innovativa e di forte appeal. Niente del genere ha mai varcato le mura del Nazareno. Ci aveva – un po’ – provato Zingaretti, spalleggiato da Maurizio Martina, ma il tentativo si arenò rapidamente con il varo del Conte 2. Quando per l’ennesima volta – come ha ricordato la Meloni – il Pd entrò nel governo senza vincere le elezioni. 

Se Calenda dovesse avere ragione, anche stavolta i democratici potrebbero infilarsi al potere per qualche porta di servizio. Continuando a coltivare un ceto di buona qualità professionale nella gestione istituzionale ma sempre più scollato dal tessuto più dinamico del nostro paese. E, soprattutto, dai giovani. Che guardano a questo Pd come a un alieno incapace di entrare in contatto ravvicinato con le loro vite. E col futuro.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA