Il caso Sud, i sussidi e il coraggio di cambiare

di Francesco de Core
Lunedì 26 Settembre 2022, 23:46 - Ultimo agg. 27 Settembre, 06:00
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Il successo di Giorgia Meloni e del centrodestra, inequivocabile in termini di preferenze, seggi e di una sostanziale uniformità geografica, archivia la dura stagione pandemica e restituisce alla politica la primazia perduta da anni. Quale che sarà il percorso verso la formazione del primo esecutivo guidato da una donna – che ha avuto il merito di aver ritrovato il filo smarrito del rapporto con il Paese – restano in campo temi ineludibili, molti dei quali già contenuti nell’Agenda Draghi. La crisi economica provocata dal conflitto in Ucraina, che colpisce indistintamente le imprese come le famiglie, e quella occupazionale che continua a deprimere il Mezzogiorno, non possono non essere argomenti di primo piano nel carnet del governo che verrà. È qui che dovrà subito cimentarsi la Meloni con la sua compagine; ed è questa la sfida sulla quale si misureranno le sue ambizioni e la sua coerenza, premiate dall’elettorato oltre ogni polverosa polemica.

Del resto, quella appena terminata è stata una campagna elettorale “commissariata” dalla questione energetica – fronte che, in piena emergenza, dovrebbe farci amaramente riflettere su quelle politiche di lungo corso azzoppate negli anni con sistematicità dal Partito trasversale dei No. Insomma, salari prosciugati dall’inflazione e bollette ormai triplicate hanno pesato molto più di quanto s’immaginasse, soprattutto nel Sud rinchiuso in una bolla depressiva.

E qui emerge con nettezza l’anomalia del voto di domenica: il caso Napoli, sineddoche della nuova questione meridionale. Anzitutto per l’affluenza alle urne, scesa sotto la soglia del 50 per cento e non soltanto per colpa dei nubifragi che hanno colpito in mattinata la città: c’era nell’aria una disaffezione preoccupante, che come tale era stata stigmatizzata dallo stesso sindaco Gaetano Manfredi. E poi per il riscontro nelle urne dei Cinquestelle, che hanno sbaragliato il campo – con una rimonta verticale – vincendo tutti i seggi uninominali della circoscrizione Campania 1 (per un complessivo 41,3 per cento alla Camera) e conquistato un risultato soddisfacente nel resto della regione.

Non siamo agli esiti delle elezioni 2018, quando l’uragano pentastellato superò a Napoli il 54 per cento. Però sono stati centrati traguardi numerici non previsti e prevedibili nei giorni in cui il movimento, dopo la sanguinosa scissione del ministro Di Maio e la spina tolta definitivamente al governo Draghi, sembrava aver imboccato una inevitabile parabola discendente. 

Merito della campagna di Giuseppe Conte, che ha fatto leva sulla credibilità di M5S in rapporto alla definizione e all’attuazione del Reddito di cittadinanza, provvedimento difeso a spada tratta come un totem intoccabile – e sul quale si è schiacciato passivamente il centrosinistra. D’altronde, i dati sono inequivocabili: secondo le cifre più recenti, il Reddito in Campania viene percepito da 257mila famiglie, per un totale di 628mila persone, pari al 25 per cento della intera platea nazionale; nel dettaglio, sono oltre 162mila i nuclei partenopei coinvolti, con un importo medio dell’assegno pari a 637 euro, il più alto d’Italia.

Si può dire che l’impatto del Reddito abbia influito sul voto di Napoli? E’ fuor di dubbio.

Si può sostenere che, in generale, la misura adottata dal primo governo a trazione pentastellata abbia prodotto – come da percorso indicato – concrete conseguenze sull’ingresso nel mondo del lavoro dei percettori del Reddito? Assolutamente no, considerata la percentuale molto bassa di inserimento occupazionale.

Il vero nodo è dunque il cortocircuito tra misure programmate e reale efficacia a lungo termine. Il Reddito è diventato un sussidio “sic et simpliciter”, a cui hanno avuto accesso anche nuclei e persone che non ne avrebbero diritto – tanto che da tempo sono accesi i riflettori della magistratura. 

C’è dunque un Sud che massicciamente rifiuta il voto e, quando lo cerca, si aggrappa al sussidio per convenienza come ultima àncora di salvezza; ma c’è pure una classe politica che si aggrappa a chi percepisce l’assegno – nel bisogno o meno – per alimentare il serbatoio del consenso. Nessuna idea persuasiva e convincente per prosciugare le sacche di povertà e sottosviluppo, pur nella gestione complessa di una difficile contingenza socio-economica. Il Pnrr potrà evitare il definitivo tracollo del Mezzogiorno solo se i progetti andranno compiutamente in porto, trattandosi del 40 per cento degli investimenti totali previsti, pari a oltre 80 miliardi. Forse di questo si dovrebbe discutere per predisporre un futuro di concretezza e solidità ai giovani, anche a quelli più sfiduciati e marginalizzati, i cosiddetti Neet.

Ma c’è poco da stare allegri se investimenti e fondi strutturali lasciano il passo in via esclusiva al bonus e al ristoro fine a se stesso, surrogati che alimentano un mutuo soccorso. Si può così tamponare una emorragia, perché è sacrosanto tutelare i soggetti più deboli; ma non pensare di risolvere il problema alla radice.

Ci sarebbe in via ipotetica un Sud diverso con una sua (non sempre tonica e persuasiva) classe dirigente, ma non si nota. E comunque ha perso, colpevolmente, voce. La frattura con il resto del Paese è evidente, nonostante la cartina d’Italia sia stata quasi del tutto egemonizzata dal blu del centrodestra. Non è solo questione di rappresentanza in Parlamento, di schieramenti e di tatticismi. Per questo la responsabilità che dovrà assumere il nuovo governo a trazione Meloni è doppiamente importante: invertire (soprattutto a Sud) una rotta che prosciughi il bacino del populismo e delle sue derive, che paiono tonificanti sul breve ma che sono assolutamente deleterie alla lunga, e portare a compimento i grandi programmi di investimento di concerto con l’Europa. Con coraggio e visione. 

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