Se i vinti di Verga non sono lontani ​dai giovani d'oggi

di Fabrizio Coscia
Giovedì 23 Giugno 2022, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Che cosa vuol dire, oggi, proporre per la prova scritta di italiano una novella come «Nedda» di Giovanni Verga a dei diciottenni che si accingono a misurarsi con una società selvaggiamente competitiva, che coltiva il mito del successo a ogni costo, che condanna i perdenti - gli “sfigati” - all’esclusione, che fa del guadagno facile l’unico obiettivo da raggiungere? Che cosa significa invitarli a ragionare sul ciclo dei «vinti»?

Forse qualcuno poteva aspettarsi che uscisse una traccia su Verga, poiché quest’anno ricorre il centenario della morte (avvenuta il 27 gennaio 1922), o forse no, visto che la ricorrenza è passata piuttosto sotto silenzio, e perché il giusto riconoscimento al grande scrittore catanese è sempre stato un po’ ostacolato, sia in vita che dopo, da quel suo pessimismo cupo e senza speranze che non lo rende certamente uno scrittore «trendy», soprattutto di questi tempi forzosamente edonistici. Un pessimismo che non solo cancella la fede del cattolico Manzoni in una Provvidenza che riscatti la sorte degli umili, ma anche la grande utopia di Leopardi di una possibile «catena sociale» fatta di solidarietà contro la sofferenza che accomuna la condizione umana. E dunque, che cosa ha da dire oggi Verga, con le sue contadine invecchiate dalla fatica dei campi, i suoi pastori, i minatori bambini, i pescatori votati al fallimento? Un mondo dell’Italia postunitaria che sembra lontanissimo, datato, e che invece è ancora qui attorno a noi: lo possiamo vedere, toccare con mano, anche se preferiremmo ignorarlo, distratti e narcotizzati come siamo dalle droghe dei social.

Si prenda proprio la novella «Nedda» proposta all’esame. Scritto nel 1874 durante il soggiorno a Milano, è un racconto lungo ambientato nella campagna siciliana, che narra la storia d’amore tra una giovane raccoglitrice di olive e un contadino ammalato di malaria. Quando Nedda resta incinta di Janu, il suo fidanzato, lui promette di sposarla, ma poi muore in un incidente sul lavoro, cadendo dalla scala durante la rimondatura degli olivi, alla quale ha partecipato nonostante la febbre. Non è difficile intuire, già solo dall’estrema sintesi della trama, l’attualità di questo racconto. Certo, «Nedda» non segna ancora quella strepitosa rivoluzione copernicana che Verga compierà di lì a poco con «Rosso malpelo» (l’adozione cioè del punto di vista della comunità popolare, l’eclissi dell’autore, quei «tagli improvvisi e netti - come li chiamava Bontempelli - che riempiono di coltellate tutta la narrazione»), ma nei temi anticipa la svolta verista.

Quali sono questi temi? Morte bianca, sfruttamento, ma anche condizione femminile subalterna, difficoltà economica e mancanza di prospettive di una giovane coppia.

Questo Sud della questione meridionale raccontato da Verga non è ancora il nostro Sud? E non è ancora tutti i Sud del mondo? E i suoi «vinti», dallo stesso Rosso Malpelo, vittima del lavoro minorile, alla innocente Nedda, dalla famiglia Malavoglia a Mastro-don Gesualdo, protagonista di uno dei romanzi più grandi della letteratura mondiale, questi personaggi travolti dalla fiumana del progresso, questi anti-eroi senza speranze di riscatto sociale, né religioso, sono davvero così diversi dai «nuovi poveri» della nostra società, o dagli immigrati disperati che approdano sulle nostre coste attirati da un miraggio di benessere che non vivranno mai? Ci ostiniamo a definirlo «pessimista» per comodità, ma la verità è che Verga è stato uno straordinario osservatore (la sua passione per la fotografia, i viaggi con l’immancabile Kodak sono il segno di questa «fame di realtà»), un indagatore del feroce darwinismo sociale, della logica spietata dell’interesse, del cinismo e della sopraffazione che domina i rapporti tra gli uomini, del trionfo dell’utile e della forza.

Proprio la sua visione così disincantata, con il rifiuto di ogni mitologia consolatoria, è la sua grandezza, poiché una simile concezione del mondo, espressa con una capacità compositiva e una consapevolezza stilistica così alte, è di per sé stessa un atto di accusa senza precedenti. E il fatto che questo atto di accusa possa raggiungere i ragazzi della maturità del 2022, così disorientati, smarriti, privati di fiducia nel futuro da pandemie, guerre e crisi economica, può far scoprire Verga inaspettatamente vicino, perfino fraterno. Inaspettatamente comprensibile. A loro, immersi in un virtuale sempre più alienante, può insegnare qualcosa che non hanno ancora avuto la possibilità di imparare: ovvero, che la realtà non si può eludere. E soprattutto che una società che dimentica gli ultimi, che umilia i vinti e ignora la loro dignità, è una società ingiusta. 

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