Ex terroristi non estradati: il solito
impulso di impartirci una lezione

di Massimo Adinolfi
Giovedì 30 Giugno 2022, 00:00
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Credo abbia detto tutto Mario Calabresi: la sensazione è che l’abbiano scampata. La sensazione è che i dieci terroristi rossi, per i quali la Francia ha negato l’estradizione, provino loro per primi la sensazione di averla fatta franca. Storie diverse, vicende diverse, ma per la Corte d’appello di Parigi nessuno dei dieci arrestati, per i quali il nostro Paese aveva chiesto l’estradizione, deve scontare la sentenza definitiva di condanna, comminata dai tribunali italiani.


Non ha detto solo questo, Calabresi. Ha anche detto che probabilmente, per le condizioni in cui versa, e per la distanza temporale dai fatti, Giorgio Pietrostefani, uno dei dieci, condannato per l’assassinio del commissario Luigi Calabresi, padre di Mario, non dovrebbe andare in carcere. Ma ciò non toglie che rimane la sensazione di impunità, e la strana idea sottesa a una decisione che pare riportare in vita la cosiddetta dottrina Mitterand, secondo la quale, in sostanza, c’è una tutela giuridica nei confronti di persone macchiatesi di reati politici che solo l’Eliseo può assicurare. Per cui niente estradizione. 


Non so cosa si debba pensare, in generale, di questa impostazione. So però che arrogarsi ancora il diritto di negare alla giustizia italiana la possibilità di dare corso a sentenze passate in giudicato, emesse da tribunali legittimi secondo le regole del nostro processo, è un’offesa non piccola a un Paese amico, il nostro, che peraltro presta non meno rispetto dei cugini francesi a quella Convenzione europea dei diritti dell’uomo alla quale la Corte di Parigi ha voluto riferirsi.
Ma ogni volta che i giudici transalpini sono chiamati a pronunciarsi su vicende legate alla stagione del terrorismo – nel passato ma evidentemente ancora oggi –, sembra che provino irresistibile l’impulso di impartirci una lezione. O si tratta di una diversa considerazione di fatti che, per il loro contenuto politico, si ritiene che debbano essere sottratti all’ordinario giudizio delle corti, come se la giustizia italiana fosse inquinata tuttora da tossine ideologiche non ancora smaltite. Oppure si tratta di una diffidenza di sistema sulle garanzie che l’ordinamento giuridico italiano sarebbe o non sarebbe in grado di accordare. L’una e l’altra lezione sono evidentemente inaccettabili, quella di ieri come quella di oggi, e c’è solo da augurarsi che il rammarico per la decisione assunta dalla corte parigina venga espressa dalle autorità italiane ai più alti livelli.
Poi si possono aggiungere tante cose. Che effettivamente l’amministrazione della giustizia italiana ha molti problemi, ad esempio.

Ma un simile sindacato sull’operato dei nostri tribunali non tocca certo ai giudici francesi esercitarlo, e non, in particolare, sui casi sui quali si sono pronunciati ieri: in blocco, forse per far prima e non avere altre seccature.


Si può aggiungere anche che le biografie individuali di persone che un tempo hanno imbracciato le armi per combattere contro poteri sovrani che giudicavano illegittimi meritano tutti una particolare attenzione, e non una condanna sommaria. Dal punto di vista storico, un simile approccio sarebbe, è vero, completamente infruttuoso. C’è un bel libro di Paolo Macry, al riguardo, appena uscito, che pone domande su come possa capitare che gli uni vengano salutati come patrioti, gli altri invece maledetti come terroristi, gli uni celebrati gli altri esecrati. Studiare queste storie di violente passioni, peraltro, fa un certo effetto, in una fase di così stanca partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e al destino collettivo di una comunità. Cosa spinge un uomo a giocarsi il tutto per tutto per fondare uno Stato, oppure per sovvertirlo? Tiriamo dunque fuori, pure in questo caso, la complessità che si intreccia con queste vite: ci sta tutta. Evitiamo però di farlo per costituirci l’ennesimo, comodo alibi intellettuale, un pochino indecente: un conto è la sede storiografica, un altro la sede di un tribunale.
Naturalmente, essendoci una sentenza, ci saranno anche delle motivazioni. Che non si conoscono ancora, e che bisognerà leggere. Procedimenti possono andare in fumo per un cavillo, certe istanze possono essere respinte per un tecnicismo giuridico, certe sentenze annullate per un vizio di forma. La forma, nel diritto, è sostanza e può anche darsi che qualcosa non fosse in ordine, nelle carte presentate dall’Italia. È giusto anche che non sia sufficiente la volontà politica, manifestata di recente dal presidente Macron - di prendere in debita considerazione le esigenze della giustizia italiana - per spingere la Corte di Parigi ad accogliere le richieste di estradizione. Ma resta l’impressione di una certa, tetragona univocità di giudizio delle corti francesi: sempre nella medesima direzione, sempre dentro la medesima cornice, vetusta storico-politica. Non sembra insomma che sia stata fatta giustizia, e non sembra neppure che questo sia il modo più elegante di chiudere una pagina drammatica della storia italiana recente. C’è qualcosa di meschino, anzi, e di assai poco glorioso, in questa malinconica e amara uscita di scena, che purtroppo non fa onore a nessuno.
 

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