Noi e il rischio di assuefarsi alle fake news

di Vittorio Zambardino
Venerdì 23 Marzo 2018, 23:02
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«Aspettatevi che lo facciano arrosto» scriveva ieri L’Economist riferendosi alla prossima apparizione di Zuckerberg davanti al Congresso degli Stati Uniti, cui fa riscontro il furore di opinione pubblica: ieri Elon Musk, l’imprenditore dell’auto elettrica, di quella senza guidatore e dei viaggi su Marte, ha deciso di cancellare il suo account da Facebook e di eliminare anche le pagine aziendali della sua Tesla. 
Le griglie per l’arrosto saranno due, non una. Perché questo vero e proprio scandalo della «privacy violata», grazie allo scoop dei giornalisti inglesi su Cambridge Analytica, ha portato davanti all’opinione pubblica un’emergenza. 

Vittorio Zambardino
L’emergenza è quale sia e come funzioni l’uso dei dati personali al fine di modificare gli orientamenti delle persone. Un’urgenza che in realtà riguarda tutto il mondo occidentale, Italia compresa. Eppure c’è chi dice che è tutta un’illusione o un falso problema. Anche qui ci sono i negazionisti. 
Sotto questo aspetto è istruttiva la lettura di un libro uscito negli Stati Uniti solo undici giorni fa e non ancora tradotto in italiano. Lo hanno scritto due giornalisti investigativi, Michael Isikoff e David Corn. Si intitola Russian Roulette, Roulette russa, ed ha per oggetto l’operazione che ha permesso alla Russia di interferire pesantemente nelle elezioni americane. Da quelle pagine emerge una nuova figura professionale: l’ex spia o spia in servizio, non necessariamente di nazionalità russa, con competenze informatiche o con un network di contatti che gli permettono di operare in ambito tecnico: reclutando le persone giuste che costruiscano un dispositivo per proporre notizie false, «sparate» da finti siti o finte persone. Notizie che poi saranno rilanciate da persone vere. 
È in questa temperie professionale e con questi metodi che nasce una delle campagne delle quali Cambridge Analytica si è apertamente vantata di essere creatrice: quel «Crooked Hillary» («Disonesta Hillary») che è stato il vero e proprio cavallo di battaglia del candidato presidente Donald Trump.
Al grande allarme per le fake sono seguite finora reazioni assai emotive anche da parte dei pubblici poteri. Indimenticabile il «bottone rosso», lanciato dal nostro ministero dell’Interno in piena campagna elettorale. Giustamente è stato chiesto: ma prima di perseguire la fake news, sappiamo davvero che cos’è una fake news? E la risposta è no. L’ex segretario del Pd, Matteo Renzi, vorrebbe una commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno. Laddove tutto consiglierebbe di seguire con serietà e sobrietà la vicenda internazionale per capire come si sia concretamente sviluppata in Italia. Anche perché se commissione vi fosse, sarebbe espressa dal nuovo parlamento, dove vi sono forze, non una sola, che delle fake news si sono ampiamente servite negli anni. 
Contro la vera e propria esistenza delle fake news si sono scagliati anche alcuni editorialisti e studiosi. I «negazionisti» del fenomeno sono raffinati: si limitano a confondere un po’ le acque sostenendo che le fake news esistono sì, ma non hanno efficacia sui risultati elettorali. Come se il problema fossero i soli risultati elettorali e non la paziente costruzione, nel corso degli anni, di un ambiente informativo nel quale è stato cancellato il criterio della verifica dei fatti, sostituito dalla credulità. E come se la fake news non entrassero in risonanza col circuito dei media creando un effetto di gigantesca camera dell’eco.
Le fake news hanno un respiro temporale lungo e sono sostenute dal potere dello sciame. Non siamo più nel 1948, la «propaganda» non proviene dall’alto di un comizio, ma lavora sulle emozioni - ce lo ha spiegato Cambridge Analytica - e sulle emozioni individuali. È il contenuto che «risuona» meglio con le emozioni, è quello che ha più probabilità di essere succhiato dalle «api» che siamo noi utenti dei social. Siamo noi che porteremo quel contenuto in giro per la rete, lo dissemineremo come polline. La fake la inventa qualcuno, ma poi la diffonde lo sciame, se inventi qualcosa che le api non sentono come propria, non funzionerà. E se a qualcuno venisse l’idea di prendersela col meccanismo di disseminazione, non perda tempo: chieda la chiusura di internet, perché è attraverso la disseminazione che funziona la trasmissione del sapere nel mondo digitale.
Il lavoro dei «fakisti» è cominciato con l’intuizione che i dati internet potevano essere il motore per comprendere l’anima degli individui. È una tecnica resa possibile dal fatto che nel digitale è impossibile essere anonimi fino in fondo, se non per i nerd super esperti. Più che persone, in internet siamo profili pubblici, siamo una somma intelligente di informazioni personali, emozioni comprese. Ed è proprio sulle emozioni che lavoreranno i manipolatori. I quali sanno che bisogna puntare sulla credulità, sul desiderio di credere, e non sul «fatto». 
Oggi non possiamo più esser certi che una campagna contro la fame o contro la guerra denunci una situazione «vera», perché non saremo mai certi che l’informazione non sia stata alterata. Paradossalmente si dovrebbero riscoprire gli inviati come forma principe del giornalismo: solo mandando qualcuno dove le cose accadono sarà possibile conoscere «la verità». 
Altrimenti ognuno continuerà a credere vera la notizia che coincide con i propri convincimenti. È il «pregiudizio di conferma» come lo chiamano gli studiosi di questi fenomeni. Per cui se sono convinto che i vaccini fanno ammalare i bambini di autismo, tenderò ad essere d’accordo con tutti coloro che condividono la mia stessa convinzione. Nascono tribù del pregiudizio che restano del tutto inattaccabili dall’informazione esterna, anche e soprattutto se questa proviene da un esperto. 
Ma queste sono in realtà tutte notizie di ieri. Mentre ne parliamo è già cominciato il futuro. Da Trump alla Gran Bretagna, dalla Germania di Alternative fuer Deutschland all’Italia i beneficiari delle fake news hanno sempre più potere, perché ciò che ieri ci sembrava nuovo e falso, oggi ci sembra far parte dell’arredamento della nostra vita. È l’assuefazione. Saranno tempi duri.
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