Se il bosco di Capodimonte ​è la selva oscura dei sindacati

di Fabrizio Coscia
Domenica 24 Maggio 2020, 00:00
4 Minuti di Lettura
Ha davvero dell’incredibile la vicenda della chiusura del bosco di Capodimonte, a pochi giorni dalla sua riapertura post-Covid, voluta dal direttore Sylvain Bellenger dopo una movimentata riunione con le rappresentanze sindacali. Quale l’oggetto della contesa? La vigilanza privata che il direttore avrebbe voluto all’interno del bosco, per impedire gli assembramenti e il mancato rispetto delle misure della fase 2, che in questi giorni hanno reso necessario l’intervento della polizia.

Vigilanza privata a cui i sindacati hanno invece detto no (benché sia presente nel Real Bosco ormai dal 2017), consentendola solo alle porte di accesso: immediata la reazione del direttore, che ha risposto con la chiusura di Capodimonte, da ieri, giudicando impossibile un controllo affidato ai soli custodi ministeriali (insufficienti a garantire una sorveglianza «dinamica» dei circa 70 ettari di bosco attualmente accessibili, sia perché sprovvisti di bici e auto elettriche, sia per la loro età media piuttosto avanzata). 

Una vecchia questione, quella della carenza di personale che affligge il sito di Capodimonte, più volte denunciata dal direttore (da cinque anni a Napoli), ma la nota più grottesca della vicenda è la lettera che sarebbe arrivata al direttore generale dei musei, Antonio Lampis, con l’accusa a Bellenger di aver lavorato anche durante i giorni di malattia: il direttore, infatti, sarebbe colpevole di aver rilasciato interviste all’interno del bosco, nei giorni della chiusura da quarantena, per annunciarne la riapertura il 18 maggio, mentre era in malattia per un infortunio al polpaccio. Colpevole, dunque, di lavorare troppo, perfino quando al lavoro non dovrebbe esserci. Un’accusa che ricorda quella - partita sempre dai sindacati - rivolta all’allora direttore della Reggia di Caserta, Mauro Felicori, reo di restare fino a tardi nel palazzo reale. Segno evidente che l’efficienza, l’operosità, la professionalità sono, in certe realtà, vizi da correggere, se non da punire, proprio come nella città di «Acchiappa-citrulli» raccontata da Collodi, dove il malcapitato Pinocchio va a finire in prigione perché è stato derubato. 

Ora, che le difficili relazioni sindacali e la gestione del personale siano la nota dolente del nostro sistema museale, non solo napoletano, non è certo una novità: ma che si potesse arrivare a tanto, privando i napoletani dell’unico polmone verde della città per un atto di ritorsione dovuta alle solite, vecchie logiche di consorteria, dovrebbe farci riflettere seriamente. E dovrebbe farci interrogare su perché il nostro patrimonio culturale, storico, artistico e paesaggistico debba essere sotto ricatto di certo sindacalismo feudale, che appare onestamente inaccettabile per un Paese che si voglia veramente moderno. Imitare altri importanti modelli museali europei è davvero un’utopia? Non dico il Louvre, che sarebbe troppo, ma almeno il Prado di Madrid, ad esempio - una realtà più simile a Capodimonte - che il Ministero della Cultura ha riconosciuto come struttura amministrativa autonoma, con un comitato direttivo pubblico-privato, un direttore che ha la facoltà di scegliere e avere il proprio staff, e ben nove curatori a disposizione. Si può fare? O dovremo per sempre sottostare alle piccole beghe di chi cura solo il proprio «particulare», così che un direttore come Bellenger, che in qualsiasi altra parte del mondo sarebbe un motivo di vanto, a Napoli può essere ostacolato e perfino accusato di lavorare troppo? E il primo cittadino, invece di indignarsi e tuonare contro chi ha scelto responsabilmente di chiudere il bosco perché costretto in condizioni che non garantiscono la sicurezza dei suoi visitatori, farebbe meglio a domandarsi quale sia stato il contributo che il Comune ha dato in questi anni per implementare una strategia di promozione turistica che affiancasse l’azione del museo, o per servire la zona con un trasporto pubblico efficiente, con una segnaletica stradale ben visibile, o infopoint disseminati sul territorio urbano, come chiesto più volte e invano da Bellenger. Siamo d’accordo con il sindaco: la chiusura del bosco è un «atto gravissimo», ma si cerchino le responsabilità in coloro che sono riusciti a entrare nella «selva oscura» di Capodimonte, della sua burocrazia, imponendo i loro veti e ostacolando il lavoro di chi ha sinceramente a cuore (come dimostrato finora coi fatti e non con le chiacchiere) che questo tesoro inestimabile diventi fruibile e riconoscibile come meriterebbe, con standard di efficienza di livello internazionale, libero da inutili e mortificanti zavorre, per diventare davvero una risorsa per tutta la città.
© RIPRODUZIONE RISERVATA