Responsabilità, la prova ​che Napoli deve dare

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 24 Maggio 2020, 00:00 - Ultimo agg. 08:00
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È un luogo comune che la “Fase due” si risolva, innanzitutto, sulla base di una consapevole assunzione di responsabilità da parte di tutti e la discussione pubblica si è subito spostata su un nuovo versante. Dopo la grande prova di disciplina sociale di massa che sono state le settimane di confinamento, adesso ci si divide sui meriti di coloro che l’hanno sopportata e sui limiti del diritto a riallacciare i fili di una sacrosanta socialità. 

Il pomo della discordia sono prevalentemente i giovani. C’è chi li addita come una minaccia e chi, nella tenacia con cui tornano ad occupare piazze e strade all’ora dell’aperitivo, riconosce un valore civile, quasi una difesa dei principi della convivenza democratica e della civiltà liberale. In questo quadro, il Sud è un sorvegliato speciale. Napoli su tutti. Ha dovuto dare prova di sé ai tempi del lockdown, dovrà farlo a maggior ragione ora che i freni sono stati allentati e la gente è tornata per strada. 

Vale la pena dirlo subito e così ci togliamo il pensiero, Napoli vale quanto Milano. Scene insopportabili di incoscienza e di irresponsabilità si vedono sulle sponde del Naviglio come alla Riviera di Chiaia. E solo pochi giorni fa, il sindaco Sala ha dovuto indossare i panni di un De Luca meneghino e a suo modo minacciare sfracelli. La voce del buon senso è uguale dappertutto e ovunque fatica a farsi ascoltare. Il punto però non è questo. Il Coronavirus se non ha proprio capovolto gli equilibri tra Nord e Sud sul piano della rappresentazione collettiva ne ha certamente attenuato la rigidità della polarizzazione. La classe politica e amministrativa lombarda esce male dalle drammatiche settimane del contagio; mentre Napoli, e il Sud in generale, hanno dato buona prova di sé.

Nella storia dell’Italia repubblicana, non c’è stata grande emergenza nazionale, dal terremoto del Belice in avanti, che non si sia risolta in un processo al Mezzogiorno d’Italia. Bisogna risalire molto indietro nel tempo, all’ottobre del 1963, alla strage del Vajont e alla grande polemica che aveva accompagnato la costruzione della diga fin dai tardi anni Cinquanta, per ritrovare sul terreno di una catastrofe naturale uno schema di lettura che, provando a spiegare quello che era successo sulla base della contrapposizione tra la vita indifesa delle persone comuni e la rapacità (mista a incompetenza) degli interessi proprietari, metteva a fuoco alcuni tratti delle élite settentrionali. Erano i tempi del grande dibattito sulla nazionalizzazione dell’industria elettrica e come ora anche allora le difese di ciò che difendere non si poteva si trincerarono dietro l’accusa di speculazione politica. Indro Montanelli imputava a Tina Merlin, la giornalista dell’Unità che fin dalla prima frana nel 1960 aveva denunciato la pericolosità della diga, di aver messo in giro voci calunniose al solo scopo di favorire i comunisti e quanti volevano espropriare gli industriali elettrici a favore dello Stato. Oggi lo schema si ripete pressoché identico, con la sanità privata al posto degli interessi idroelettrici. Ma esattamente come allora, ogni critica politica viene considerata un atto di sciacallaggio. 

Abbiamo passato gli scorsi anni di piatto sviluppo economico nazionale a misurare quanto sarebbe stato diverso lo standing internazionale dell’Italia se solo dal calcolo delle performance economiche del Paese si fosse potuto stornare il peso morto di questa o quell’altra regione del nostro Mezzogiorno. Dieci anni fa, proprio di questi giorni, Enrico Letta, parlamentare del Pd e vice di Bersani alla segreteria del partito, si guadagnò per un giorno le prime pagine affermando che l’Italia, se non era per la Campania, sarebbe stata più forte della Germania. Storica palla al piede del Paese, il Sud ha vissuto questa stagione della vita pubblica nazionale costantemente sul banco degli imputati. La palla al piede è per l’appunto il titolo di un libro di Antonino De Francesco che nel 2012 con grande sapienza tracciava una storia del pregiudizio antimeridionale tra Otto e Novecento. Ora discorsi che attingono argomenti a questo serbatoio della retorica italiana appaiono più deboli che nel passato. Meno legittimi, per così dire. 

La responsabilità che si chiede a Napoli e al Sud in generale, al suo ceto politico e amministrativo, dunque, non è tanto di tener alta la sorveglianza. Questo bisognerebbe chiederglielo in ogni caso. Si vorrebbe invece una diversa consapevolezza della fase. È una responsabilità squisitamente politica verso un progetto nazionale di più equa redistribuzione delle risorse messe in campo per affrontare il secondo tempo di questa emergenza. Lo spazio per politiche più larghe di bilancio e per un orientamento che non sia dominato dall’ossessione puritana del debito passa inevitabilmente anche per una capacità del Mezzogiorno d’Italia di sfatare i luoghi comuni della sua inaffidabilità. Non che di colpo siano venuti meno i fattori dell’inefficienza della società meridionale, le sue tare profonde, la corruzione, il dominio malavitoso. C’è un esile baluardo eretto in queste settimane dalle amministrazioni locali, dalle Regioni innanzitutto e a seguire dai Comuni, l’emergere di un principio di comando politico non meramente parassitario a cui sostanzialmente si deve la tenuta in condizioni di emergenza. È da qui che bisogna ripartire, perché le settimane e i mesi che stanno dinanzi a noi saranno altrettanto e più drammatici di quelli che abbiamo vissuto. E ciò di cui il Paese ha bisogno è la tenuta di equilibri politici che sono fatalmente nuovi equilibri territoriali. La chiave per la prima volta è nelle mani delle dirigenze politiche del Sud d’Italia. Vedremo l’uso che ne sapranno fare.

 
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