I guasti al Sud rimasto senza una sua banca

di Mario Mustilli *
Martedì 15 Settembre 2020, 00:00
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La notizia di una iniziativa giudiziaria promossa della Fondazione Banco Napoli contro il Ministero dell’Economia a tutela dei propri diritti, diritti che sarebbero stati lesi nella vicenda della dismissione del Banco di Napoli, concentra l’attenzione di molti da oltre vent’anni. Si confrontano due tesi. Da una parte la tesi della Fondazione.

Con il sostegno degli azionisti di minoranza dell’epoca, l’ente afferma che l’attività svolta negli anni dalla SGA – società che aveva assunto l’incarico di realizzare i crediti del Banco di Napoli di difficile incasso – ha dimostrato un valore delle azioni che oggi andrebbe riconosciuto a se stessa ed agli altri azionisti da parte del MEF – valore significativamente difforme dalle stime del tempo - anche in applicazione delle normative vigenti all’epoca che presiedevano alla definizione dell’intera operazione, con particolare riferimento a quanto previsto dalla legge 588/96.

Dall’altra, la tesi di coloro che ritengono che il MEF abbia investito, attraverso la Banca d’Italia, ingenti fondi per sostenere le finanze dell’epoca del Banco di Napoli e che eventuali utili dell’intera operazione debbano rimanere nell’alveo dello Stato centrale e, dunque, dei cittadini italiani. È portata a sostegno di tale tesi la considerazione del differenziale di tasso pagato dal Banco di Napoli alla Banca d’Italia per le anticipazioni ottenute ed il tasso superiore pagato dalla Sga allo stesso Banco per la stessa somma che di fatto configurava un sostegno pubblico copioso quanto indiretto a copertura delle perdite maturate.

In verità, sin da quegli anni, autorevoli giuristi criticarono non solo i dati quantitativi dell’intera operazione (si ricordi la significativa quanto imprevedibile plusvalenza tra il valore di assegnazione del Banco alla cordata BNL/INA e quello ricavato dopo non molto tempo attraverso la cessione della banca a ciò che oggi è Banca Intesa) ma anche la procedura seguita. Dopo tanto tempo, la chiusura delle attività della SGA con la produzione di utili notevoli ha rinnovato quelle critiche anche sulla base di studi posti in essere da autorevoli esperti che hanno tentato di misurare il danno arrecato da quella procedura agli azionisti di controllo dell’epoca.
Indubbiamente quella fu una ferita che sembra ancora oggi non essersi rimarginata negli ambienti della città e, forse, di tutto il Sud. Ed è forse giusto procedere con una definizione giudiziaria della questione onde sgombrare il campo da qualsiasi valutazione ulteriore sui fatti di quel tempo. 

Anzi, verrebbe da chiedersi quale sia il motivo di fondo che spinge ancora oggi dopo anni a concentrarsi su una storia che potrebbe essere invece preda dell’oblio del tempo, al di là della legittima tutela dei diritti eventualmente lesi dei proprietari coinvolti. L’Italia degli anni Novanta era una Italia completamente diversa da quella di oggi; il mondo ancora non era globalizzato, le banche avevano ancora un ruolo rilevante rispetto alla forza dei mercati finanziari; da ultimo c’era la lira e l’Europa non era ancora presente se non in maniera marginale nei nostri discorsi. E tuttavia, anche in quei giorni le discussioni furono accese, sebbene come è capitato di sovente nella nostra storia le voci del Sud non si alzarono troppo decisamente a difesa della «propria» banca. 

In realtà sullo sfondo di questa vicenda vi è l’immagine di una parte del nostro Paese – il Sud - che riteneva di aver perso un interprete diretto delle proprie aspettative, l’interlocutore più veloce per i propri progetti di crescita. Sarebbe sbagliato pensare che chi è subentrato non abbia fatto il suo lavoro in questi anni, ma non vi sono dubbi sulla circostanza che le grandi aree sviluppate dell’Italia hanno avuto e continuano ad avere una banca del territorio, che per quanto grande possa diventare, nasce in un certo territorio e mantiene verso di esso relazioni che non hanno a che fare solo con il mondo del credito o dell’impresa, ma anche con lo spirito di altre parti della società civile come il mondo della ricerca, quello dell’arte o della cultura e così via. 

Per quanto il mondo si sia globalizzato in questi vent’anni e per quanto il web abbia permesso di sperimentare relazioni solide a prescindere dalle distanze fisiche, in economia vale ancora la rilevanza dell’effetto community che si incarna in luoghi definiti, dove si intersecano le culture, le tradizioni ed i valori di un’area. Luoghi dove le cosiddette soft information assumono un valore significativo nel contrarre i costi delle asimmetrie rendendo più agevole l’accesso al credito e l’uso della finanza a sostegno dell’economia.

La mancanza di un player di questo tipo ha indubbiamente avuto dei riflessi sull’andamento del Sud di questi anni. D’altronde se non fosse vera tale tesi non si capirebbe perché ancora oggi alcune iniziative pubbliche tendano a ricostruire nel Mezzogiorno una banca del Sud.

* Ordinario di Economia e Gestione dell’Impresa Università della Campania Luigi Vanvitelli

 
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