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L'arretratezza del Mezzogiorno ​in quel teatro chiuso per lutto

di Adolfo Scotto di Luzio
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 27 Novembre 2022, 00:00 - Ultimo agg. : 07:00
4 Minuti di Lettura

Non potevano fare altrimenti la Fondazione Teatro San Carlo, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi. I fatti di Ischia sono troppo gravi, troppo dolorosi, perché si potesse inaugurare pur con il dovuto rispetto la stagione lirica.

Ma la frana che si è staccata dal Monte Epomeo e ha travolto con spaventosa violenza Casamicciola, trascinandosi dietro massi enormi, alberi e una immensa quantità di fango che si è abbattuta alle cinque del mattino sulle case sottostanti travolgendo persone e cose irrompe sulla questione napoletana mettendone in risalto quella che a mio avviso ne costituisce la nota dominante da sempre. 

La pretesa di modernizzazione sulla base di strutture di arretratezza. Napoli è lanciata da anni, e ne raccoglie oggi i frutti, verso un modello di sviluppo che conta soprattutto sui flussi turistici, sulla cultura, il cibo, gli scenari paesaggistici. La sua capacità di attrazione, un tempo confinata alle isole, è oggi concentrata sulla città. Complici la sicurezza internazionale, i costi dell’energia e in generale un’offerta turistica ancora abbordabile, Napoli è riuscita a intercettare e deviare in questi anni flussi turistici cospicui. Ma si può dire che a questo abbia corrisposto una trasformazione delle infrastrutture urbane, della logistica, dei trasporti e dell’accoglienza? E ora, alla luce di quello che è successo a Ischia, della tutela idrogeologica del paesaggio? Come spesso accade, questo sviluppo ha qualcosa di rapinoso. È uno sfruttamento intensivo di tutto quanto lo spazio urbano e l’ambiente circostante sono in grado di offrire, architettura, forma della città, paesaggio, tradizioni culturali, senza tuttavia che si pensi neanche minimamente a reintegrare il cosiddetto territorio dell’usura che il suo uso più intensivo inevitabilmente produce. Lo sviluppo turistico è un arricchimento di poveri, più che l’occasione di un ammodernamento delle strutture e dei parametri.

Tra i documenti filmati della tragedia di Ischia, c’è un video breve, amatoriale, girato evidentemente con un telefonino. Si sente una voce fuori campo che descrive la desolazione dei luoghi. la scena livida del crollo. Ad un tratto, commenta: «è peggio, molto peggio della volta scorsa». Si riferisce ad un’altra frana, nel 2009. La tragedia meridionale sta tutti qui. È già accaduto. Tutto è già avvenuto. E quello che succede di nuovo è solo una ripetizione. In questa struttura reiterativa dell’evento, c’è la misura dell’abbandono, dell’indifferenza e della fatalità che accompagna il degrado meridionale. 

L’incapacità di progettare e monitorare la manutenzione del territorio, delle sue emergenze, evidenti, conclamate, sempre incombenti. Era già successo meno di quindici anni fa, eppure torna a succedere ancora. Alla stessa maniera, negli stessi luoghi. Che cosa si è fatto in questi quindici anni? Quali interventi sono stati messi in atto e perché non si è pensato di mettere sotto controllo il fianco di una montagna che doveva destare più di un motivo di preoccupazione?

La pianificazione delle azioni, il calcolo, il tentativo di anticipare gli eventi, sono tutte forme di quello sforzo di imbrigliare razionalmente la vita e l’esperienza in una rete di prevedibilità statistica. Si può essere scettici quanto si vuole, ma il management scientifico della vita collettiva è una componente fondamentale del modo di essere delle società moderne.

In Italia e troppe volte nel Mezzogiorno questo non accade. Abbandono, dismissione politica del Sud, scarsa qualità delle sue classi dirigenti, disprezzo per l’ambiente in cui si vive? 

Le ragioni possono essere le più varie. Sta di fatto che messi uno a fianco dell’altro, i due eventi della giornata di ieri, la prima annullata del San Carlo e la frana di Ischia, ci mettono di fronte, con una evidenza insostenibile, all’assurdità di una forma sociale completamente scissa.

Da un lato, il rito sociale di una città moderna, la cultura, la politica, la mondanità; dall’altro, la tragedia di una clima particolarmente inclemente che in una volta sola rivela che cosa significa vivere in un ambiente di cui non ci prendiamo cura. Queste due realtà procedono silenziosamente l’una a fianco dell’altra, come silenziosamente è avanzata fino al boato dell’alba la frattura nella montagna che è franata sulle case sottostanti portandosi via in un colpo solo vita e beni.

Poi, quando tutto esplode, la scissione si ricompone e il Sud che vuole cambiare faccia, rifarsi una identità dopo le promesse mancate dell’industrializzazione, torna davanti a qualcosa che non si lascia facilmente manipolare: il suo dissesto naturale.

Ancora una volta, non ci sono scorciatoie nella modernizzazione. Consumare quello che abbiamo ereditato fin che rende qualcosa non è il modo più furbo per crescere. Altrimenti continueremo a girare in tondo fino alla prossima tragedia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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