Come (e quanto) pesa il fattore delle fiction

di Andrea Di Consoli
Martedì 28 Marzo 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Se il direttore del Mattino Francesco de Core domenica ha sentito l’esigenza di firmare un editoriale così drammatico per le tematiche etiche che si è posto e ha posto, significa che l’omicidio di Francesco Pio Maimone a Mergellina rappresenta il sintomo di una malattia che non si può più trascurare. 

Tra i temi che de Core ha posto – tanto da sollecitare su queste colonne un intervento ieri del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, assai attento alle questioni napoletane e campane – uno in particolare mi ha turbato, e cioè il rapporto che intercorre tra l’immaginario veicolato dalle fiction e dalle serie criminali ambientate a Napoli e il comportamento dei giovani meno robusti da un punto di vista educativo e civico.

Bene ha fatto il direttore a dire chiaramente che non è immaginabile alcuna forma di censura o di caccia alle streghe – l’arte è libera, e tale deve rimanere –, ma è sotto gli occhi di tutti non solo che la criminalità ispira sceneggiatori e registi, ma che l’immaginario criminale fictionale contribuisce a dare spessore epico e mitologico a figure, frasi e comportamenti dei protagonisti delle fiction e delle serie criminali. Tanto da portare i giovani più a rischio devianza a imitarli. E questa non è una mia supposizione, ma un dato di fatto, perché sono almeno due decenni che sappiamo senza ombra di dubbio, anche grazie ai racconti di Roberto Saviano, che boss e criminali sono avidi consumatori di serie e di fiction del genere mafioso. 

Poiché conosco i meccanismi che portano alla definizione di un soggetto cinematografico, io dico che su questo argomento non sono più ammissibili – ovviamente se la parola “etica” ha ancora un peso nel nostro Paese – cinismi e ambiguità. Perché non è vero che i soggetti cinematografici vengono scritti esclusivamente per il bisogno di “registrare” un fenomeno sociale, e dunque per amore di realismo, ma anche per calcolo commerciale, perché il sangue, il male, il crimine, il nero – lo sappiamo tutti – funzionano più degli altri generi. E un produttore ha come principale obiettivo che i propri prodotti incassino molto e abbiano successo. Quindi è vero sì che l’arte è libera e che tale deve rimanere, ma se salta qualsiasi tensione etica nel lavoro di chi ha l’onere e l’onore di fabbricare l’immaginario collettivo, questo significa che stiamo decidendo deliberatamente di avvelenare tutti quei giovani che hanno la sfortuna di nascere in contesti famigliari e sociali fragili, problematici, violenti, ecc. 

Ovviamente non sto dicendo che la mano di Francesco Pio Valda l’ha armata chi ha scritto serialità criminali ambientate a Napoli o in ogni dove – sarebbe una semplificazione, e anche una volgare banalizzazione del problema.

Ma qui la domanda che bisogna porsi è perché non si riesca mai a creare una serialità giovanile ambientata a Napoli che dia forza, coraggio e fiducia, e che sappia raccontare la bellezza, anche figlia di tanta normalità, che sgorga in ogni dove a Napoli. E qui torna il tema del cinismo, perché lo so bene che parlare di normalità, di quotidianità e di bene ha cinematograficamente basso appeal commerciale, ma cosa ce ne facciamo di un mercato dell’audiovisivo drogato di cinismo se poi dobbiamo piangere morti devastanti come quelle di Francesco Pio Maimone? 

A quest’altezza del discorso mi rendo perfettamente conto che etica ed estetica vanno in cortocircuito, tanto da espormi al rischio di un’idea di arte in qualche modo orientata moralmente, e dunque, per usare una vecchia locuzione, di tipo “zdanovista”. Ma prima di ogni cosa io sono un padre, e un padre coscienzioso non dovrebbe mai sfamare i propri figli con i frutti di un lavoro che ha contribuito ad avvelenare i pensieri e le coscienze dei più giovani. E mi assumo tutta la responsabilità moralistica che una simile posizione comporta.

Compito degli artisti non è offrire immagini edulcorate ed edificanti a ogni costo – sarebbe, appunto, “zdanovismo”, e un liberale come me non potrebbe tollerarlo –, ma mi chiedo come mai dalle serie criminali emerga sempre il lato eroico dei boss, e mai la loro miseria, la loro psicopatologia, la loro mediocrità, la loro crudeltà. È davvero necessario avvolgere questi personaggi orrendi in un’aura di eroismo e di coraggio virile? Su questo aspetto non è pensabile una maggiore aderenza alla realtà, visto che questi personaggi di eroico non hanno proprio nulla? Cosa ha di eroico uno che spaccia, che uccide, che spara, che fa piangere le persone, che minaccia, che ricatta, che ruba, che terrorizza chi vive onestamente? Cosa c’è di virile nella violenza che annienta e distrugge? Questo davvero non lo capisco. E mi chiedo perché chi scrive serie e fiction possa vivere spensieratamente in una sorta di zona franca etica per il solo fatto di essere, appunto, un artista. Anche perché noi lo sappiamo bene che dietro gli artisti ci sono i produttori, e i produttori non sempre sono mossi da ragioni etiche. Ma chi paga il conto salato del loro cinismo? 

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