Parlare meno e fare più fatti: bravo mister Gattuso, che trova lo slogan adatto per ripartire, o meglio per provare l’ennesima ripartenza di una stagione mai così piena di ostacoli e veleni.
Parlare meno, per primo lui che di polveroni inutili ne ha alzati più d’uno - la società no, che tanto quella non parla neanche quando dovrebbe - ma anche i tanti, troppi commentatori, i leoni da tastiera e i soloni della tv, i nostalgici e le vedovelle, insomma lo sconfinato mondo dei tifosi veri o presunti che non smette di dire la sua alimentando un corto circuito di tensione a mille. Fare più fatti, piuttosto: a Gattuso, e a tutta la squadra, tocca esattamente questo sforzo adesso, fare più fatti in un momento della stagione a dir poco cruciale, dove o vinci oppure butti tutto a mare, e tutto il resto è appunto solo un fiume di chiacchiere e veleno.
Parlare poco, dunque, o almeno parlare bene: e bene ha fatto, il Ringhio calabrese, ad addossarsi in questo momento così cruciale tutte le colpe che stanno dietro al flop più clamoroso della recente storia del calcio italiano e forse mondiale, il flop di una squadra che a settembre era data tra le concorrenti allo scudetto e le favorite nella corsa all’Europa League, e che si è lentamente, incredibilmente suicidata.
Non sono tutte di Gattuso le colpe, sarebbe ingeneroso affermarlo: non è colpa sua se i calciatori si sono via via infortunati venendo meno l’uno dopo l’altro come in un film dell’orrore, non è colpa sua se in certe partite la palla non è entrata in porta nonostante duecentomila tentativi, non è colpa sua se il Covid si è messo di traverso tra noi e la trasferta a Torino, che ad affrontarla a ottobre ora ci ritroveremmo tre punti sicuri in più, e loro tre definitivi in meno. Ma di colpe ne ha altre, forse la maggior parte, probabilmente le più gravi. E sentirglielo ammettere, ieri in una delle conferenze stampa più tristi mai registrate nel triste mondo del calcio dell’era Covid, è stato liberatorio.
È finita la ricerca degli alibi, è finito il balletto dei sottintesi: «Il primo colpevole sono io». Ringhio l’incassatore, Ringhio l’onesto. Ringhio che guarda in faccia i tifosi napoletani e lo scandisce con serietà, con rispetto: «Indossiamo una maglia storica, rappresentiamo una città fantastica e ognuno si deve assumere le responsabilità».
È la lezione di un uomo onesto, di un uomo perbene. Uno che conta sui rapporti umani in un mondo dove gli altri contano i soldi, uno che ama la verità in un mondo che è tutta una bugia, come sentenziò l’esperto Benitez. Il quale peraltro proprio ieri, a chi gli chiedeva di un possibile ritorno a Napoli, ha opposto - guarda caso - il più farisaico dei modi di dire, «non tiratemi dalla bocca quello che non voglio». Una bella differenza.
E che differenza con l’allenatore Re di Coppe, che pure di Gattuso è stato il maestro, che fino all’ultimo giorno ha scaricato solo sui giocatori la responsabilità di aver rotto il giocattolo perfetto che gli aveva consegnato Sarri. Sarri, certo, il più amato di tutti, che però ci dedicava la Coppa dell’Europa League mentre si accordava con gli scolorati.
Mister Gattuso, forza, andiamo a battere il Granada. Che poi il tempo è galantuomo, e tra galantuomini ci si intende; e alla Champions si arriva anche da lì.