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Il Mattino

Giorgio Napolitano, l'europeismo come punto ​di riferimento

di Massimo Adinolfi
Articolo riservato agli abbonati
Sabato 23 Settembre 2023, 00:00 - Ultimo agg. : 07:00
5 Minuti di Lettura

L’elezione di Giorgio Napolitano, il 10 Maggio 2006, non riservò sorprese. O forse sì: la sorpresa fu che nell’urna non si affacciò neanche un franco tiratore, nonostante la risicatissima maggioranza di cui disponeva in Parlamento l’Unione di Prodi. In realtà erano già tramontate le due ipotesi alternative: la rielezione di Ciampi, oppure Massimo D’Alema.

Alla quarta votazione, la strada era dunque spianata già e l’ex Presidente della Camera,già Ministro dell’Interno, già senatore a vita, già esponente di punta dell’ala migliorista del Pci, fu eletto con i voti di tutto il centro sinistra, la contrarietà di Lega e Alleanza Nazionale, e la neutralità di Forza Italia, che votò scheda bianca. Con Napolitano, il peso e l’influenza del Quirinale sulla vita pubblica crebbe e si intensificò. Non erano certo mancati settennati fortemente segnati dalla personalità dell’inquilino del Colle: basti pensare alle sfuriate di Pertini o alle esternazioni di Cossiga. In uno stile diverso da quello improntato alla pedagogia civile di Ciampi, o all’intransigenza morale di Scalfaro, Napolitano ha rappresentato il punto di equilibrio del sistema politico italiano.

È stato un saldo riferimento atlantista ed europeista per il Paesi alleati, una garanzia per la credibilità internazionale del Paese anche in anni difficili, segnati dall’instabilità a livello globale (le primavere arabe, il terrorismo islamista), da una profonda recessione economica e dalla estrema fragilità dei partiti. La prova più difficile fu senz’altro la crisi del 2011, seguita alle drammatiche dimissioni del governo Berlusconi. I costituzionalisti amano ripetere che i poteri del Capo dello Stato si fanno sentire, in particolare, quando i meccanismi politici si inceppano, quando il sistema in panne ed è necessario accendere il motore di riserva. Nella caduta del leader di Forza Italia, e nella successiva formazione del governo Monti, che Napolitano chiamò pochi giorni prima in Parlamento nominandolo senatore a vita, il Capo dello Stato giocò effettivamente un ruolo di supplenza: con il tilt di Berlusconi, la pressione dei mercati, il discredito e la sfiducia nella classe politica, fu Napolitano a trovare il bandolo della matassa, spingendo centrodestra e centrosinistra a sostenere un «governo di impegno nazionale», formato da personalità scelte fuori dall’impegno politico attivo, in grado di mettere in sicurezza i conti pubblici. 

Quella stagione di riforme e austerity non fu premiata dagli elettori, che nel 2013 penalizzarono la lista Monti e in generale le forze di governo. Il Capo dello Stato fu chiamato dunque a gestire un altro passaggio difficile, con un Parlamento inedito, nel quale irrompevano in maniera fragorosa i “portavoce” pentastellati. Con il populismo grillino Napolitano non fu mai tenero: vedeva tutti i pericoli di instabilità, di impreparazione, di demagogia ai quali il Paese veniva esposto dalla prepotente affermazione del M5S. Non fu però tenero neppure con i partiti, la cui crisi dava evidentemente fiato e corda alla retorica anti-politica. Il più lucido documento di questo giudizio è nel discorso con il quale Napolitano si rivolse alle Camere riunite in occasione della sua rielezione al Quirinale: per la prima volta nella storia della Repubblica un Presidente tornava sul Colle più alto, di fronte all’impasse evidente in cui i partiti si erano cacciati con il fallimento della candidatura di Franco Marini prima, di Romano Prodi poi. «Non prevedevo di tornare in quest’aula per pronunciare un nuovo giuramento», disse Napolitano: per ragioni personali, legate all’età, e per il modello di Repubblica parlamentare che la Costituzione disegna e del quale fu sempre attento custode.

A spingerlo ad accettare fu «l’inconcludenza» del Parlamento, «l’impotenza» dei partiti, la «sterilità» del confronto politico. Un discorso privo di qualunque autoindulgenza «verso i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell’amministrazione», così come verso «i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme», ma che d’altra parte denunciava anche, con grande lungimiranza (cosa che allora non fu purtroppo altrettanto bene avvertita) il montare di «campagne di opinione demolitorie, di rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono». Sette giorni dopo quello storico discorso, nasce il governo di larghe intese presieduto da Enrico Letta: lo stallo che aveva indotto il presidente Napolitano a nominare una commissione di saggi e ad anticipare la fine del suo primo mandato era così superato. Anche se non pure le scosse al sistema, visto che di lì a un anno Letta dovrà passare la mano a Matteo Renzi.

Non sempre, però, l’iniziativa del Colle è andata a buon fine. Nell’autunno del 2013, il Capo dello Stato indirizza il suo unico messaggio alle Camere, sullo stato delle carceri italiane, ufficialmente sanzionato da Strasburgo. Nel rivolgersi al Parlamento, Napolitano dice chiaramente che, se non ha fin lì fatto ricorso a uno strumento previsto in Costituzione, è perché in passato non è quasi mai accaduto che al messaggio presidenziale seguissero atti conseguenti. Le cose prenderanno poi la giusta strada, con la diminuzione del sovraffollamento carcerario e la riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma, nella sua parte attuativa, essa si è arrestata a un metro dal traguardo, con le elezioni del 2018 e l’affermazione di Lega e Cinque Stelle che ne hanno imposto l’immediato accantonamento. 

Al momento della rielezione, Napolitano si era fatto promettere un serio impegno di riforma. Esso è però andato ad infrangersi contro il voto avverso degli italiani, nel referendum istituzionale del dicembre 2016. Una sconfitta per Renzi, ma anche per Napolitano. A quella data, però, il Presidente si era già dimesso: ben prima della fine del secondo settennato, come aveva promesso nel giorno dell’insediamento. Consapevole di aver fatto comunque tutto quanto era stato in suo potere per tenere in carreggiata l’Italia. Un esercizio di equilibrio e di responsabilità che gli valse l’ostilità delle forze populiste e non gli risparmiò neppure le campagne di stampa dell’opinione pubblica giustizialista. Ma che, riguardato in una prospettiva di più ampio respiro, con il distacco richiesto al giudizio storico, ha significato la salvaguardia del bene più prezioso: la tenuta dell’ordinamento democratico del Paese. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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