I ragazzi in lockdown e la fiducia perduta

di Giuseppe Montesano
Martedì 27 Ottobre 2020, 00:00 - Ultimo agg. 06:59
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Qual è lo stato di benessere attuale dei giovani, gli esseri umani che vanno dai 10-11 anni circa ai 18-19 anni circa, che stanno entrando nel secondo lockdown completo che purtroppo incombe su tutti? Quando hanno saputo che si tornava a scuola, la scuola con gli sbaciucchiamenti, i passaggi di libri e merendine, le chiacchiere rubate da un banco all’altro, gli incontri galeotti nei corridoi e insomma la scuola come vita sociale complicata ma indispensabile, erano felici. Al terzo giorno di scuola in mascherina e gel, l’umore era cambiato: vivere in un metro circa come in una carcerino, disinfettare le mani a ogni passaggio di oggetto, parlare con la mascherina, non poter interagire con il compagno a fianco o dietro o davanti, li ha depressi: sono intelligenti, e hanno capito che quella non era la scuola che avevano sognato dopo la fine del primo lockdown. 

E quando sono passati alla didattica a distanza ci sono entrati più o meno, a seconda dell’età, senza particolari scosse: anche perché il fuori scuola era intatto, e le uscite del venerdì e del sabato e in realtà di ogni sera lussureggiavano, e la vita di relazione era salva. Poi la situazione è precipitata, e ancora sta precipitando, fino a veder rinascere all’orizzonte la chiusura totale. E loro, che sono ovviamente i più fragili, cominciano a sentire in profondità l’inquietudine e la difficoltà di esistere. 

E qui sfatiamo una leggenda, diffusa da chi è interessato a usare il binomio ragazzi-scuola a fini politici: non è vero che con la didattica ha distanza, a cui tutte o quasi le scuole si erano autonomamente preparate, non si impara, perché questo, a partire circa dalla terza elementare in su, è falso. Questa del gap educativo è una pretestuosa bugia, tra l’altro gravissima se viene da politici che straparlano di digitale diecimila punto zero come panacea di tutti i mali, e poi ignorano che la scuola con i ragazzi sta molto più avanti di loro. E’ semplice: la scuola vera è la scuola dal vivo senza mascherine, gel, distanze eccetera, ma se questa non è possibile, la dad o did che sia è un atto di razionalità. In più accade qualcosa per la quale potrei invocare la testimonianza di un’infinità di dirigenti, insegnanti, studenti, genitori: che si parla di più tra queste categorie. So per esperienza mia e altrui che gli studenti, che al suono della campanella schizzavano via come razzi, ora spesso vogliono fermarsi dopo la fine delle lezioni (signori politici: lezioni che loro ascoltano da casa, e non dagli ipermercati, perché sono vigilati dalla scuola) per parlare, per chiedere, per capire, e, soprattutto i pre-adolescenti, per ricreare, anche a distanza, una comunità.

E gli altri, docenti e dirigenti e genitori, se non sono tronchi umani, parlano con loro e tra loro, per capire e aiutare. 

Ma i ragazzi, oltre alla perdita della scuola della socialità, devono perdere la socialità privata per i piccoli e grandi lockdown. E cosa pensano e sentono, in tutto ciò? Sono inquieti, perché hanno capito che regna l’incertezza. Sono tendenti a chiudersi, perché si sentono isolati e dimenticati. Sono smarriti, perché i loro punti di riferimento pensano ad altro. E i loro punti di riferimento sono, nonostante tutto, gli adulti. Chi ascolta i ragazzi? Chi interpreta i loro discorsi obliqui o i silenzi enigmatici e ambigui? Chi, sia pure tornando stanco dal lavoro, si dedica a loro sul serio? Chi lo fa alzi la mano: molti la alzeranno, ma molti non potranno alzarla. Perché è da prima della pandemia che questo non ascoltare i ragazzi è in atto: con la pandemia la questione dilaga e peggiora, ma non nasce adesso. La prigionia dei lockdown parziali e totali toglie spazio ulteriore, e genera nei giovani e giovanissimi più sfiducia verso i loro interlocutori: che siamo noi, nessuno escluso. 

La prigionia sociale è mancanza di relazione vivente con gli altri, è mancanza di incontro e scontro con i coetanei, è mancanza di incontro e scontro con le figure degli adulti. Eppure… Non sarebbe questa un’occasione per noi genitori di parlare o di ascoltare? Non si tratta di buonismo, ma di urgenza: farlo ora, prima che sia tardi. E poi, diciamolo, non dovrebbero essere l’educazione e il sapere che tanto si invocano, ma solo ciarlando, estesi anche agli adulti? La sfiducia dei ragazzi era già grande, perché sono intelligenti e capiscono che troppi adulti sono inadeguati o interessati, e condannano in silenzio gli adulti che fingono di agire per loro. Far crescere questa sfiducia è delittuoso. Sveglia! In una società in cui le “agenzie educative” sono plurali, non c’è più una sola figura demandata a educare: cominci ognuno a dialogare, subito, senza aspettare gli altri. E cominci ognuno ad auto-educarsi o ad auto-rieducarsi. Il futuro è nelle connessioni tra le persone, non nei decreti.
 

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