Gli inutili steccati elettorali dei partiti

di Paolo Pombeni
Lunedì 20 Settembre 2021, 23:30 - Ultimo agg. 21 Settembre, 06:00
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Non è semplicemente una banale polemica elettorale quella che sta opponendo Letta e Salvini. È il tentativo di ridare fiato e vita al mitico bipolarismo destra/sinistra che si era appannato con l’entrata in scena dei Cinque Stelle vecchia maniera e con una certa crescita di nuovi piccoli partiti fuori delle consolidate tradizioni politiche. Si dirà: nulla di nuovo sotto il sole, ma come sempre sono i dettagli e le peculiarità a segnalare i nuovi panorami. Lo scontro attuale infatti cerca di riproporre, anche malamente se è consentito dirlo, l’immagine più stereotipata di quello scontro. Su un versante c’è una destra che resiste principalmente a sostenere quello che ormai è «un mondo di ieri»: pensionamenti generosi, niente riforma fiscale, muri al fenomeno migratorio per tornare come prima, guai a pensare a leggi sulla concorrenza che tocchino diritti (cioè privilegi) acquisiti e avanti di questo passo. 

Sul versante di sinistra, invece, si cavalca lo stereotipo opposto: promozione di tutte le “innovazioni” alla moda, tutela (presunta) delle “diversità”, negazione che il cambiamento in corso comporti problemi perché il nuovo è comunque bello, rilancio di slogan tradizionali contro le ricchezze non guadagnate (vedi tassazione a capocchia delle successioni).  È questo il confronto di cui ha bisogno una società che si trova ad affrontare una trasformazione epocale che per lungo tempo è stata tematizzata in astratto (globalizzazione, nuova economia, società dell’individualismo sfrenato, ecc.), ma che adesso la terribile esperienza della pandemia ha fatto toccare con mano alla generalità del pubblico? 

Ci sarebbe da dubitarne, anche se è quasi fatale che nei momenti di sbandamento si faccia ricorso alla polarizzazione delle opinioni: si sta o di qua o di là, guai a parlare di cose complesse che non si possono risolvere partendo da domande semplici e semplificate a cui si può rispondere con un sì o con un no e tutto è sistemato. La nuova ondata di entusiasmi referendari, agevolata dall’illusione che si possa risolvere ogni cosa con un clic, è un segnale inquietante. Eppure esiste un modo diverso di impostare l’eterno confronto in politica fra destra e sinistra. Un tempo lo si chiamava confronto fra conservatorismo e progressismo (le loro deviazioni estreme si chiamavano invece reazionarismo e radicalismo integrale).

La differenza con oggi è che entrambi i fronti riconoscevano che si aveva a che fare con un passaggio storico che andava accettato perché inevitabile, con una evoluzione che andava governata. 

I conservatori pensavano che lo si potesse fare accettando i cambiamenti in modo da salvaguardare quelli che essi ritenevano dei valori che andavano oltre la veste contingente che avevano assunto in passato e che non poteva più essere mantenuta. I progressisti ritenevano che i mutamenti storici portassero verso evoluzioni positive, ma che dovessero essere maneggiate in modo da non produrre uno sconquasso capace di mettere a soqquadro i valori di coesione sociale e di ordinato sviluppo senza i quali una società finisce nel buco nero dell’anarchia.

Ad una politica oggi piuttosto accecata dall’incognita di non capire più dove andranno la società e il nostro sistema economico-politico-istituzionale si fa fatica a proporre il ritorno a quella sana dialettica fra conservazione e progresso che è quella in cui alla fine, certo con qualche fatica, si trovano le mediazioni che tengono tutto insieme e che generano il consenso politico: perché nessuno si illude che si possa fermare la storia, come nessuno crede che si possa allegramente buttare alle ortiche tutto quello che si è accumulato nella storia precedente.

Eppure basterebbe guardare al coinvolgimento modesto dell’opinione pubblica negli attuali scontri fra la destra e la sinistra così come si tenta di farle rivivere. La quota degli indecisi, dei non schierati, nei sondaggi è piuttosto considerevole. Del resto non si vedono in giro appassionati dibattiti che fanno eco alle intemerate dei leader e dei loro seguaci che cercano spazi nel teatrino della politica spesso anche esasperandone le prese di posizione. Il successo e il credito di cui gode il “governo del fare” di Draghi, quanto di meno coinvolto nelle risse da stadio che si possa immaginare, qualcosa vorrà pur dire.

Per i partiti cogliere questa svolta nella domanda di una politica seria da parte della gente dovrebbe essere più importante che recitare la parte di chi fa barricate su un lato o sull’altro dello schieramento. Lavorare per una ricostruzione a fronte di un cambiamento dovrebbe essere più attraente che perdersi a prospettare l’avvento di non si sa bene quale paese delle utopie, proclamate, in fondo, lasciando intendere che nessuno ci crede davvero: lo si fa solo per tenere la scena.

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