Un accordo largo per superare l'emergenza

di Alessandro Campi
Mercoledì 13 Gennaio 2021, 23:30 - Ultimo agg. 14 Gennaio, 07:39
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Dove finiscono l’ambizione, la vanità e il risentimento personali e dove cominciano il calcolo degli interessi, le battaglie di principio e le legittime divergenze progettuali? Sin dall’inizio di questa strana crisi è stato in effetti difficile – guardando alle mosse e alle dichiarazioni di Matteo Renzi – definire il confine tra l’ansia di protagonismo fine a se stessa e il perseguimento più o meno razionale di un qualche disegno politico.


Da qui lo sconcerto, rispetto alle manovre di Palazzo cui da qualche tempo stiamo assistendo e che infine hanno raggiunto l’acme, che si riscontra nell’opinione pubblica interna (presa da preoccupazione più vitali, su tutte la salute e l’economia) come nelle diverse Cancellerie europee (al solito preoccupate per la cronica instabilità del Bel Paese). 


In pochi, nei giorni scorsi, hanno in realtà messo in discussione la fondatezza delle critiche mosse dal leader di Italia Viva a Giuseppe Conte e al suo governo. Lo dimostra il fatto che esse sono state in gran parte recepite dagli alleati: in particolare quelle relative al piano di investimenti previsto all’interno del programma Next Generation Eu. 


Così come strada facendo è scomparsa dall’agenda l’idea che per gestire questi investimenti fosse necessario allestire una struttura tecnica ad hoc alle dirette dipendenze di Palazzo Chigi ed esautorare le burocrazie ministeriali.
Ma la piega presa dagli eventi – con le dimissioni ieri sera, largamente annunciate, delle due ministre renziane Bellanova e Bonetti e del sottosegretario Scalfarotto – dimostra che quelle critiche erano poco più di un ragionevole pretesto. L’obiettivo evidentemente non era correggere le scelte dell’esecutivo, invocare genericamente una maggiore collegialità, ovvero puntare ad un suo rafforzamento attraverso un tradizionale rimpasto negli incarichi, ma chiudere col Presidente del Consiglio in carica, spingendolo alle dimissioni, per aprire ad una nuova formula di governo e, con ogni probabilità, ad una nuova maggioranza politica. La centralità, politica e d’immagine, che Renzi non aveva ottenuto quando, nell’estate del 2019, con un colpo a sorpresa ha fatto nascere l’esecutivo giallo-rosso presieduto da Conte, l’ha certamente conquistata ora che ha deciso di affossarlo. 


Le parole pronunciate da Matteo Renzi nella conferenza stampa che sempre ieri ha formalizzato la crisi, non sembrano in effetti lasciare molte speranze rispetto alla possibilità, largamente ventilata nei giorni scorsi, che da questa crisi si possa uscire con un Conte ter e qualche cambio di poltrona o a quella, ventilata ancora ieri con insistenza, che la soluzione possa consistere in un nuovo patto di legislatura tra gli alleati attuali e con Conte sempre al comando. Se le parole hanno un senso, quelle che Renzi ha pronunciato hanno messo ufficialmente a nudo non un semplice malessere politico, di quelli che si possono ricomporre dopo, come suole dirsi, una franca e approfondita discussione, ma un’insanabile diversità di metodo e contenuti.
Quella che ha denunciato con riferimento all’esperienza del secondo governo Conte è infatti il persistere – nelle sue parole – di una vera e propria emergenza democratica determinatasi in Italia col pretesto della pandemia: il Parlamento marginalizzato, il procedimento legislativo ordinario sostituito dalla decretazione d’urgenza per via amministrativa, l’abuso dello strumento commissariale.

Ha inoltre stigmatizzato uno stile politico unicamente teso al perseguimento del consenso personale: le dirette televisive a reti unificate, la comunicazione istituzionale piegata al linguaggio ipersemplificato dei social, il personalismo spacciato per decisionismo. Criticando il populismo mediatico contiamo e la tentazione dei pieni poteri è parso a molti che Renzi, presentatosi come strenuo difensore del formalismo istituzionale, delle procedure della democrazia parlamentare e del primato della politica contro la demagogia antipolitica, abbia in realtà criticato, insieme a Conte, il se stesso di qualche anno fa. Resipiscenza rispetto agli errori commessi nel passato o fatale legge del contrappasso? 


Naturalmente, Conte – additato come un accentratore per di più dimostratosi incapace di affrontare, in tutti questi mesi, i problemi reali degli italiani – non starà a guardare. Ma, rispetto ad appena un paio di giorni fa, i suoi margini d’azione sembrano essersi ristretti. Specialmente dopo che il Capo dello Stato gli ha spiegato l’inutilità per il Paese di un governo che per compensare al Senato i parlamentari di Italia Viva si affidi a qualche transfuga centrista. Se gli italiani, come dicono i sondaggi, in maggioranza non hanno capito le mosse di Renzi, ancora meno capirebbero (a apprezzerebbero) il ricorso ai cosiddetti “responsabili” per tenere in vita quello che doveva essere il “governo del cambiamento”. Non si esce dall’instabilità esponendosi ai ricatti di qualche avventuriero rimasto senza casacca dopo averne indossate troppe.
Sempre dopo l’incontro al Colle, pressato evidentemente anche da un Partito democratico intenzionato ad evitare l’ennesima rottura a sinistra, Conte ha provato a lanciare messaggi concilianti ai renziani e adombrato un vertice di maggioranza per appianare i dissensi e provare ad elaborare un programma condiviso di ricostruzione e rilancio dell’attuale maggioranza. Ma si è vista appunto la risposta di Renzi, che avendo comunque escluso con forza l’ipotesi di elezioni politiche anticipate (non se le può permettere l’Italia, non se le può permettere il suo ancora fragilissimo partito) è probabile che a questo punto stia pensando, come unica soluzione per superare lo stallo politico da lui stesso determinato con indubbia determinazione, ad un governo istituzionale o di scopo. 


Una soluzione che avrebbe, a questo punto, una ratio politica imposta dalle contingenze: se il problema principale dell’Italia, in questo drammatico momento, è infatti quello di affrontare e gestire la pandemia e i suoi effetti meglio di quanto sinora si sia fatto, forse conviene farlo coinvolgendo al massimo le forze politiche e dividendo tra tutte loro responsabilità, oneri e doveri. Ma che potrebbe anche contare su una crescente convergenza: da ultimo – sempre che non si tratti di una battuta – anche da parte di Grillo, col suo invito di ieri ad «un patto tra tutti i partiti». Resta solo da capire, ma lo capiremo prestissimo, quanto una simile conclusione della crisi vada a genio al Presidente della Repubblica, ancora una volta arbitro, garante e risolutore dei nostri fragili equilibri istituzionali.
 

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