Se i partiti in frantumi ​non imparano la lezione

di Alessandro Campi
Venerdì 14 Maggio 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Tra le molte ragioni che hanno portato alla nascita del governo Draghi, una delle più forti all’epoca è stata la crescente condizione di difficoltà in cui versavano i partiti, in particolare quelli che in Parlamento sostenevano l’esecutivo giallo-rosso guidato da Conte. Con l’Italia alle prese con l’emergenza – sanitaria, economica e sociale – prodotta dalla pandemia non ci si poteva concedere il lusso di una maggioranza litigiosa al suo interno, e perciò incapace di decidere e programmare, e di un’opposizione sempre sulle barricate e a sua volta divisa. 

Da qui il ricorso ad una formula di salvezza o unità nazionale sostenuta dal Capo dello Stato e alla quale – come è noto – non ha aderito solo il partito di Giorgia Meloni.

Insomma, il governo Draghi è nato anche per dare ai partiti il modo e il tempo di risolvere le loro diatribe intestine, di rimettersi in ordine sul piano organizzativo, di ridefinire i loro obiettivi e programmi, di rilegittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica. E ciò nella convinzione che partiti claudicanti producono una democrazia a sua volta zoppa. Ma lo hanno fatto, lo stanno facendo?

A leggere le cronache, non sembra accaduto granché. Anzi, se possibile la situazione appare persino peggiorata. Ma il Partito democratico – si obietterà – non si è dato un segretario nuovo di zecca e dal profilo autorevole come Enrico Letta? Vero, ma proprio le dimissioni traumatiche di Zingaretti all’indomani della caduta di Conte stanno lì a dimostrare come questo partito si fosse cacciato in un vicolo politicamente cieco: gestiva il potere ma senza una strategia e senza nemmeno avere avuto il crisma di una qualche vittoria elettorale.

Quanto a Letta, che pure ce la sta mettendo tutta per operare un vero rinnovamento del partito, resta il dubbio su quanto possa autorevolmente guidarlo visto come è arrivato al vertice: una soluzione di compromesso avallata dai capicorrente, una cooptazione dall’alto, senza alcuna battaglia congressuale. Lui per primo sa che al minimo intoppo elettorale (già alle prossime amministrative, se dovesse andare male in città come Roma, Torino o Bologna) la sua posizione diverrebbe immeditatamente traballante e ripartirebbe le faide che sono, da molti anni, la specialità della sinistra italiana. 

Del M5S è persino difficile parlare in questo momento, tale è il caos che regna nelle sue fila. Mai transizione al comando fu più difficile e complicata: da settimane Conte è un segretario designato, ufficioso, in pectore, ma di fatto ancora senza alcun potere formale ed effettio. In mancanza di un capo riconosciuto e di una linea politica, nel partito nato per rompere i rituali beceri della vecchia politica non si parla dunque che di crediti dovuti, rimborsi mancati, cause legali, tribunali, defezioni, espulsioni, liste degli iscritti che Casaleggio si tiene ben stretti, ecc.

Non si ricorda nella politica italiana un simile livello di asprezza e bassezza.

Quanto alla sinistra radicale (diciamo la sinistra del Pd, così nessuno si offende) è anch’essa lì che fibrilla, cercando di capire come possa sopravvivere a se stessa. Parliamo di un pulviscolo di sigle effimere che da tempo non fa altro che scomporsi e ricomporsi, senza mai trovare un punto di coagulo. Riuscirà Speranza laddove hanno già fallito, per limitarsi agli ultimi anni, Ingroia, Vendola, Grasso, Boldrini, Fratoianni ecc.? Il dubbio è legittimo.

Ci sarebbero, sempre nel campo del centrosinistra, due altre sigle (Italia Viva e Azione), ma sono appunti due sigle, ovvero formazioni quasi senza elettori (stando ai sondaggi) e con una struttura organizzativa alquanto lasca, che vivono solo della luce dei rispettivi leader: Matteo Renzi (sul quale pesano sempre più le incertezze sul suo vero futuro professionale) e Carlo Calenda (che sconta un carattere a volte troppo irascibile e umorale). 

Sembrerebbero andare meglio le cose nel centrodestra, dove almeno esistono delle leadership forti, certificate e riconosciute. Quella di Berlusconi, innanzitutto, ma a questo punto della sua carriera politica – dopo quasi trent’anni di battaglie in prima linea – gli si farebbe persino un torto pensando che possa ancora avere una carriera politica. Ha avuto coraggio a sostenere Draghi, si dice, ma se è per questo Salvini ne ha avuto ancora di più. La verità è che Forza Italia, per essere stato solo e soltanto il partito del Cavaliere, non sembra avere dinnanzi a sé un grande futuro. In passato è stato una macchina da guerra elettorale. Oggi è un partitino d’opinione privo di radicamento e di base organizzativa, con un vertice che sta lì a chiedersi cosa fare e dove andare quando il Fondatore non ci sarà più.

Due partiti d’impianto più tradizionale, con quadri e militanti sul territorio, sono quelli della destra sovranista, ma entrambi hanno fatto una scelta nel segno di un personalismo assai spinto. Oggi la Lega è Salvini e Fratelli d’Italia è la Meloni: tutto quel che sta alle loro spalle quasi non conta. Un bene finché il leader ha il vento in poppa e traina le truppe. Un limite e un pericolo non appena l’immagine pubblica del leader dovesse appannarsi per una qualunque ragione. 

La conclusione non è consolante. L’Italia è stata in Europa un modello esemplare di «democrazia dei partiti». Rischia di diventare un caso curioso e preoccupante di «democrazia senza partiti».

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