I (veri) sacrifici che siamo disposti ​ad accettare

di Massimo Adinolfi
Venerdì 7 Ottobre 2022, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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È francamente improbabile che, insediandosi al governo, Giorgia Meloni faccia come Winston Churchill e prometta lacrime e sangue: dopo tutto, l’Italia non è in guerra, le bombe non piovono sulle nostre città e, nonostante certe folli minacce, Putin non è Hitler.

Ma non è per baloccarsi con paragoni storici del tutto implausibili che vale la pena rievocare la famosa frase di Churchill, nell’ora più buia della storia europea recente. Lo si fa, piuttosto, per domandarsi che cosa ci vuole perché un Paese sia disponibile se non a versare lacrime e a fare getto del proprio sangue, perlomeno a compiere sacrifici, a fare scelte difficili, a rinunciare a parte del proprio benessere.

Vedo già arrivare l’obiezione: di quale benessere parli? Le bollette schizzate alle stelle colpiscono anzitutto i ceti popolari: sono loro che pagano il prezzo più alto, loro preoccupati non di un benessere del tutto immaginario, ma più semplicemente di sbarcare il lunario. Ed è vero. Solo che è sempre vero. Voglio dire: nessuna crisi grava nella stessa misura sui ceti abbienti e sui ceti meno abbienti. E c’è sempre un dovere di solidarietà nei confronti di chi non ce la fa ad arrivare a fine mese. Il che però non toglie senso alla domanda, che si interroga su un altro genere di solidarietà: quella che riguarda l’Italia come Paese, quella che coinvolge la posizione internazionale dell’Italia, quella che deve sostenere le scelte che, come comunità di destino – per dirla con una certa enfasi –, ciascuna collettività è chiamata a compiere.

Per questo motivo creano ben più di un imbarazzo certi discorsi che si ascoltano: per via della posizione assunta nel conflitto russo-ucraino, ci tocca stringere la cinghia - si dice con evidente disappunto - risparmiare sul gas o sull’elettricità, e magari rinunciare pure alle luminarie natalizie. Naturalmente, le motivazioni che stanno dietro a simili ragionamenti possono essere le più diverse: ci sono quelli che danno libero sfogo a vecchi pregiudizi anti-atlantici, ad esempio, hanno sempre voluto scrollarsi di dosso l’egemonia a stelle e strisce e considerano il conflitto nel cuore dell’Europa solo la funesta riprova della prepotenza americana. Poi ci sono quelli che discettando di geopolitica ti spiegano come sia nel nostro migliore interesse tenerci buoni la Russia. E quelli per i quali non si capisce perché mettere a repentaglio il mondo, sfidando Putin a usare ordigni nucleari, e infine quelli per i quali, in generale, il gioco non vale la candela: perché morire per Kiev?

Sia pure.

Ma per cosa, allora: per cosa morire? Mi domando per esempio perché, se questa è la logica, la stessa popolazione ucraina dovrebbe preferire un disastro nucleare alla cessione di porzioni, dopo tutto parziali, del territorio nazionale. Non vorrei però assumere presuntuose pose eroicheggianti e dire come gli antichi stoici che chi impara a morire disimpara a servire. Perciò torno ad una misura di sacrifici più modesta, e mi chiedo se davvero una comunità possa esistere, stare al mondo, escludendo dalla dimensione del proprio agire politico l’idea che si debba pagare un prezzo, a volte anche alto. L’infelice frase di Draghi sulla pace e sul condizionatore è stata infinite volte criticata, come se un problema non con i condizionatori ma ormai con i termosifoni non ce l’avessimo, e non fossimo ora probabilmente costretti a rinunciare a un po’ di confort. Ma se non è per la pace, per cosa? Sembra che la risposta a Draghi che sale dal Paese – non so se anche dalle urne – sia che vogliamo la pace tenendoci pure i condizionatori: facile, no? E però, per le cose difficili: quando ci attrezziamo?

Il filosofo sloveno Slavoj Zizek ha scritto una volta che l’imperativo categorico del nostro tempo, l’ingiunzione che nelle società occidentali avanzate ci viene costantemente rivolta, suona molto diversamente dall’antico dovere morale, di kantiana memoria. È qualcosa come: enjoy yourself! Cioè divertiti, lascia perdere l’atteggiamento ascetico e penitenziale dei vecchi tempi e spassatela, godi, consuma. Di nuovo: chi di soldi per spassarsela non ne ha, ha poco da divertirsi. Ma nell’aria circolerebbe comunque questa idea, che rende del tutto improponibile qualunque discorso su sacrifici e rinunce.

Ora, io non so se sia vero, in giro tutta questa sconsiderata allegria mi piacerebbe pure ma in verità non la vedo. Vedo piuttosto un senso di sfiducia e di distacco ben più preoccupante: l’impressione è che le cose per cui vale la pena impegnarsi a fondo si trovano sempre meno nello spazio pubblico, e sempre meno si trova la disponibilità a riconoscersi in ciò che i governanti chiedono ai governati. Ho paura insomma che la solidarietà che neghiamo agli ucraini, o che perlomeno ci pesa così tanto, la neghiamo e pesa anzitutto a noi stessi.

Ed è forse su questo terreno, prima ancora che sul Pnrr o persino sulle bollette, che i partiti, tanto di maggioranza quanto di opposizione, dovrebbero cominciare a interrogarsi seriamente. 

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