Hamburger, bistecche e salsicce light, la dieta vegana divide l’Europa

di Francesca Pierantozzi
Lunedì 19 Ottobre 2020, 23:58
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No, se è di soia, non può essere salsiccia. E se il sangue della bistecca (di tofu) è di barbabietola, non è bistecca. Per quanto realistico possa essere il rosso. I vegetariani, i vegani, i vegetaliani e anche i più adattabili semi-vegetariani dovranno forse rivedere se non i loro gusti, almeno il loro linguaggio, e dire pane al pane, vino al vino e carne alla carne, ma non ai suoi succedanei a base di soia, seitan lenticchie, ceci e altri vegetali vari. Il parlamento europeo si riunisce oggi per votare la piccola rivoluzione lessicale: i termini che fin dalla notte dei tempi hanno designato l’universo dei carnivori, i vari bistecca, salsiccia, burger, polpette o scaloppine, non potranno essere usati per definire gli «equivalenti» prodotti senza carne. Il dibattito tuttavia non è chiuso e non tutti sono d’accordo. Una corrente linguisticamente più accomodante ritiene che vietare di chiamare una salsiccia il prodotto vegano che della salsiccia ha la forma, (quasi) il sapore, e perfino la consistenza, pur in totale assenza di maiale, significa semplicemente rendere più complicata la vita del consumatore, tanto più che la dicitura «vegetale» appare sempre in bella evidenza e che – su questo tutti sono d’accordo – il gusto della salsiccia di maiale e quello della salsiccia di soia sono difficilmente confondibili. Per gli agricoltori e soprattutto per gli allevatori, in compenso, l’affare è importante e non ammette compromessi: diamo alla carne quel che spetta alla carne. In un mercato che vede i prodotti alternativi alla carne in continua crescita e ormai stimato a livello globale a più di 4,6 miliardi di dollari, e con il 39 per cento del giro d’affari concentrato in Europa, il settore zootecnico si mobilita. In Francia, le denominazioni carnivore controllate sono state approvate a giugno: lo steak vegetale non potrà più chiamarsi steak, in base alla legge sulla “trasparenza dell’informazione sui prodotti alimentari”.

Il gastronomo Laurent Mariotte aveva difeso la decisione: «La definizione di steak è pezzo di manzo da grigliare. Le parole sono importanti, in cucina e nella vita». Secondo alcuni si tratterebbe di una vittoria sui grandi gruppi agroalimentari, che hanno utilizzato il lessico del nemico carnivoro per facilitare il consumo di prodotti vegetali.

«È solo marketing – aveva detto Mariotte – Diciamo la verità: è solo per sedurre il consumatore che chiamano il trancio vegetale uno steak». Sul fronte opposto, i produttori di alimenti vegani o vegetariani, sostengono che non è in gioco nessuna difesa del consumatore: sarebbe semplicemente l’industria della carne, sotto accusa in particolare per le condizioni di allevamento e macello degli animali, che cerca di reagire impuntandosi sulle parole. L’Unione vegetariana europea (Evu) ha fatto sapere in una nota che è per ora difficile valutare le conseguenze di un cambiamento forzato di terminologia. Molti produttori ritengono che i termini familiari come burger o steak aiutano a dare un’identità ai loro prodotti, che creano un’aspettativa sulla forma, l’odore, il gusto o la consistenza. Difficile prevedere quale aspettativa al palato potrebbe creare un «trancio di soia», un «paté di seitan» o addirittura, come proposto da qualcuno, un «disco vegetale» in sostituzione del vecchio burger. L’eurodeputato francese Eric Andrieu ha proposto un compromesso: che venga stilata una lista di termini da riservare in modo esclusivo alle carni (come filetto, ossobuco, o costolette) e di consentire invece un uso esteso anche al mondo vegetale per i termini più generici come burger o steak. Si seguirebbe in questo modo la linea scelta nel 2017 per proteggere il copyright dei termini del latte e dei derivati.

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