I carabinieri e la vecchia idea del «lei ci stava»

di Titti Marrone
Lunedì 11 Settembre 2017, 23:24
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«Le donne facciano autocritica: quante volte provocano?» Era scritto così sul cartello che nel Natale 2012, dopo l’uccisione di una ragazza per mano di uomo, don Pietro fece affiggere alla porta della chiesa di San Terenzio di Lerici. Una variazione sul tema «l’uomo non è di legno». E a quanto pare su questo stesso piano andrà a collocarsi la difesa dell’appuntato dei carabinieri di Firenze già reo confesso. 

Non per tutto, però. Non per il reato di stupro poiché, com’è riferito dal suo avvocato che è poi anche donna, per lui la ragazza sarebbe stata sobria e, quanto al rapporto sessuale, del tutto consenziente.
Eccola, la categoria chiave, ripetuta in questo come in quasi ogni caso di abuso, da chi non percepisce neanche alla lontana la gravità di una violenza subìta in silenzio, nel terrore paralizzante. Ecco l’espressione che svela l’analfabetismo affettivo e l’autismo relazionale di un maschile preoccupato solo di sé, che percepisce il femminile non come entità umana degna di rispetto ma come terreno di caccia. «Consenziente» è la parolina sussurrata da uomini in divisa o in borghese, con la tonaca o in t-shirt o in djellabah, di età, nazionalità, estrazioni sociali le più diverse, e a volte perfino da donne inconsapevoli portatrici della stessa sottocultura. Oppure è pronunciata con un’ombra di scherno, perché si sa, l’uomo è cacciatore e la femmina sempre e comunque preda, quindi, o in modo esplicito con dinamica di adescamento dichiarato o in maniera obliqua e provocante, sempre lei ci sta. Anzi, sotto sotto non aspetta altro.

Dunque, come tutte le altre anche la studentessa americana, secondo il capopattuglia indagato, in una notte fiorentina senza taxi aveva accettato di salire nell’auto dell’Arma con i due carabinieri in divisa e in servizio per la ronda di sicurezza non già per averne un passaggio fino a casa bensì perché, come ogni donna, sotto sotto s’immaginava, anzi addirittura desiderava di essere acchiappata sul pianerottolo una volta arrivata a casa e lì violentata mentre l’amica restava bloccata in ascensore con il compagno di ronda. È questo il sottinteso dietro la frase «è stata lei a invitarmi a salire» detta dal carabiniere alla sua avvocata. Nessuna traccia, nelle dichiarazioni dell’uomo, dell’idea che, da una pattuglia di carabinieri in divisa, una ragazza si aspetterebbe di essere protetta, magari scortata in cima alle scale perché è buio pesto e lei si sente con le difese abbassate, ma mai potrebbe aspettarsi invece i pantaloni abbassati del suo accompagnatore. 

Delle cose dichiarate dal carabiniere e riferite dall’avvocata ce n’è però una assolutamente plausibile: non sono un mostro, ha detto l’uomo, padre di famiglia e con una ventennale impeccabile esperienza di servizio nell’Arma. Sarà verissimo, ma in un certo senso è perfino peggio. Perché la sottocultura che addossa alla donna la responsabilità per la perdita di controllo di sé e dei propri istinti sessuali da parte dell’uomo non è dei mostri, ma è diffusa, diffusissima tra le persone che diciamo normali. Coincide con uno stereotipo socio-culturale profondamente radicato, a cui gli uomini si direbbero per lo più interiormente molto legati, consapevoli come sono che, se vi rinunciano, possono essere irrisi dagli altri maschi con l’offesa, tra loro suprema, di scarsa virilità o effeminatezza. È il principio della caccia, sempre lo stesso: se c’è una preda in giro e tu non armi l’arco e non ti comporti da cacciatore, no, hai qualcosa che non va bene. Quanto alla preda, si sa, se scappa lo fa per essere rincorsa.
Non è passato molto tempo da quando, a rinverdire la vecchia idea del «lei ci stava», fu una sentenza della Corte costituzionale, passata alla storia come «la 1636, la sentenza dei jeans». Era il 1998, lo stupro era da poco diventato reato contro la persona finendo di esserlo, impersonalmente, contro la morale. Il pronunciamento cancellò la condanna a due anni e dieci mesi decisa dalla Corte d’Appello di Potenza contro Carmine C., 45 anni (chissà perché, come nel caso dei carabinieri, i nomi maschili erano e sono tanto protetti), istruttore di guida portato in tribunale con l’accusa di stupro da Rosa, 18 anni. Per la Consulta, la ragazza non si era opposta perché il violentatore era riuscito a sfilarle i jeans, indumento ritenuto «non sfilabile senza la fattiva collaborazione di chi lo indossa». 

Allora partì una mobilitazione di donne parlamentari di diversi schieramenti arrivate in Parlamento in jeans, per protestare. Fu una risposta efficace, favorì un dibattito proficuo: non solo la sentenza venne ribaltata, ma in molti s’interrogarono sull’assurdità del concetto «l’uomo non è di legno». Ce ne vorrebbero altre, di mobilitazioni così. Ma molto altro ancora ci vorrà perché la matrice violenta di quella visione sia scardinata, non condivisa da tanti uomini, non più trasmessa ai ragazzini, ai bambini e nemmeno alle bambine, le piccole donne del futuro da educare alla valorizzazione di sé. Mentre a tutti va indicato il dovere del rispetto per la donna come pratica umana naturale. Rifiutando lo schema del gioco della caccia che per lei prevede solo un ruolo.
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