I conti dello Stato e le condotte responsabili

di Giuseppe Vegas
Sabato 27 Maggio 2023, 23:45
5 Minuti di Lettura

Pochi giorni le Poste hanno emesso un francobollo per celebrare i cento anni della Legge di Contabilità generale dello Stato. È lecito ritenere che la celebrazione valga anche per tutte le altre leggi in materia che negli anni si sono susseguite. Se ognuna di esse ottenesse l’onore di un francobollo, sicuramente si farebbe la gioia dei filatelici, ma si potrebbe anche avere maggiore consapevolezza degli effetti che le politiche pubbliche hanno avuto sull’andamento dell’economia italiana e sulla vita dei cittadini. 

Basti considerare che tutte la modifiche all’originaria Legge di Contabilità sono nate per cercare di risolvere i problemi che, col trascorrere del tempo, andavano assillando i nostri decisori pubblici.

La questione non è mai stata granché apprezzata dall’opinione pubblica: i conti sono ritenuti dai più un fastidioso adempimento da lasciare a grigi ragionieri. In realtà il Bilancio dello Stato rappresenta il vero luogo in cui si realizza il processo democratico. Governi e Parlamenti possono alzare o abbassare le tasse, spendere o risparmiare, destinare le risorse alla soddisfazione di questo o quel bisogno, indebitarsi o rimborsare i creditori. Ma tutto deve passare dal Bilancio e gli effetti di queste scelte impattano sulla vita di ognuno di noi. D’altra parte, le moderne democrazie nascono con la Magna Charta del 1215, quando i baroni si ribellano a Giovanni Senzaterra, rifiutandosi di pagare le ingenti spese di guerra.

Le regole, dunque, rivestono una fondamentale importanza per l’adozione delle scelte pubbliche. Spesso, anziché offrire a tutte le parti in gioco uno strumento neutrale, si sono poste l’obiettivo di favorire qualche specifico risultato. Così nell’arco dell’ultimo secolo, e in particolare negli ultimi decenni, la nostra Legge di Contabilità di volta in volta si è orientata a favore della lesina o dell’allargamento dei cordoni della borsa.

Va ricordato che questa fondamentale legge nasce, appunto nel 1923, per definire moderni principi di contabilità, unificando in un unico bilancio quelli di tutti i ministeri, prima separati, e così consentire lo stretto controllo del governo centrale. Il 1948 porta la nuova Costituzione che fissa le regole generali del Bilancio e stabilisce nell’articolo 81, quarto comma, il fondamentale principio secondo cui non si può spendere ciò che non si ha. Nel 1964 le regole vengono adeguate all’Italia del boom, quando la “liretta” volava e il tempo correva, e si permette di gestire fuori bilancio e con criteri più elastici (si ricorda che la decorrenza dell’anno finanziario coincide con quella dell’anno solare) ampi settori dell’intervento pubblico: si pensi solo alla Cassa per il Mezzogiorno.

Ma poi con la crisi energetica degli anni Settanta il quadro cambia rapidamente: la spesa inizia a crescere e, con essa, il debito. Il 1978 vede una nuova riforma finalizzata a razionalizzare la manovra finanziaria all’interno di un quadro programmatorio, che fissava i limiti complessivi di spese ed entrate.

Contemporaneamente, venivano rafforzate le regole, cercando di rendere più complicata l’approvazione di nuove spese. L’operazione non ebbe successo e le regole furono spesso eluse. Tanto che si dovette intervenire di nuovo nel 1988 per cercare di rendere più difficile approvare leggi di spesa.

Gli anni Novanta si sono caratterizzati come quelli delle grandi manovre, dapprima per far fronte all’esplosione del debito e successivamente per ottemperare ai rigidi criteri di Maastricht, che imponevano stretti limiti per il disavanzo e il debito.

Ciò malgrado, non di rado i costi effettivi delle leggi non coincidevano con i loro preventivi. Per porvi rimedio, una nuova legge nel 2009 tentò di modernizzare la struttura del Bilancio, adottando un modello di tipo economico, più simile ai bilanci delle imprese, e quindi più comprensibile e meglio valutabile sotto il profilo dei costi e benefici della spesa pubblica. Inoltre, per impedire elusioni alle regole di controllo della spesa, si inventò una clausola di salvaguardia, una sorta di rete di sicurezza nel caso in cui la copertura si fosse dimostrata inadeguata. L’approccio rigoroso e prudente durò poco.

La riforma costituzionale del 2012 cercò di porre rimedio alla situazione critica provocata dalla crisi finanziaria mondiale e da quella interna, aggiornando il tradizionale principio del pareggio di bilancio, che oggi non si applica più ai conti annuali, ma si riferisce ad un arco pluriennale, in cui si possono compensare gli effetti negativi del ciclo economico. Inoltre, invece di impedire semplicemente la creazione di debito pubblico aggiuntivo, se ne favoriva l’incremento, grazie al marchingegno di richiedere al Parlamento una autorizzazione per approvare uno scostamento rispetto agli obiettivi già fissati nel Bilancio. La circostanza poi che, per dar corpo all’escamotage, sia necessario, con approccio bipartisan, un voto a maggioranza assoluta non fa che incentivare possibili compromessi tra gli schieramenti, con le conseguenti ricadute sulla spesa. Sorpresa finale: la nuova legge di contabilità di fine 2012 abolisce la clausola di salvaguardia.

Ciò che è avvenuto dopo è più facile da ricordare. Crisi economica, pandemia e guerra hanno imposto potenti iniezioni di denaro pubblico nell’economia. Le regole di contabilità non hanno frapposto ostacoli, o sono state aggirate. I dati, in termini di deficit e debito, sono la lampante dimostrazione che non ci si può salvare l’anima solo rispettando la forma della legge. Occorre invece essere responsabili dei comportamenti e delle decisioni che si adottano ogni giorno. Se la celebrazione del centenario con l’emissione di un francobollo ha lo scopo di ricordare a tutti questo principio virtuoso, allora non sarà stata inutile.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA