I tagli che portano al contenimento della spesa pubblica

di Giuseppe Vegas
Sabato 3 Dicembre 2022, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Nel ricevere il testo della manovra finanziaria varata dal governo italiano, Bruxelles si è mostrata preoccupata per il livello del nostro debito pubblico, anche in rapporto a quello del Pil raffrontato con gli altri Paesi della zona euro. L’esecutivo europeo si è in ogni caso riservato di esprimere un giudizio dopo una valutazione approfondita. Ovviamente, non poteva fare diversamente. E, i suoi rilievi se non sono stati particolarmente graditi al di qua delle Alpi, non sono tuttavia privi di fondamento.

Infatti, il rapporto tra debito pubblico e Pil nell’area euro, che negli anni della pandemia aveva ampiamente superato l’obiettivo del 60% fissato nel Trattato di Maastricht, è diminuito dal 97,9% del 2021 al 94,2% del terzo trimestre di quest’anno, grazie soprattutto alla crescita del Pil, che ha superato quella del debito. 

In Italia invece tale rapporto è sì sceso dal 150,3% del 2021, ma si attesta ancora ad un livello programmatico del 145,4% nel 2022. Ciò, malgrado che il debito (passato dai 2.678 miliardi del 2021 ai 2.777 di fine 2022) sia stimato in crescita di poco più di 20 miliardi nel prossimo anno, manifestando così un trend calante, in costanza tuttavia di una insufficiente crescita del Pil valutata circa mezzo punto nel 2023, e dell’andamento insoddisfacente dell’avanzo primario (che quantifica di quanto le entrate superano la spesa, esclusi gli interessi sul debito) che da negativo nel 2022 diventerà appena positivo (lo 0,2%) solo nel 2025. Contravvenendo sotto questo aspetto alla regola in base alla quale la stabilizzazione del debito, per piegare gradualmente la sua curva di crescita, si otterrebbe con un avanzo di almeno cinque punti.

Proprio per tener conto di questa realtà, che deriva dal susseguirsi della grande crisi finanziaria, della pandemia e della guerra, Bruxelles ha congelato negli ultimi due anni l’avvio di procedure di infrazione nel caso di superamento dei limiti al deficit e al debito.

Ha inoltre messo allo studio la revisione del Patto di stabilità (che fissa gli obiettivi quantitativi), nella consapevolezza che definire un target in termini percentuali può dimostrarsi privo di significato, soprattutto in una fase di accresciuta turbolenza, quando restare legati ad un approccio meccanicistico non agevola né una serena discussione tra Paesi portatori di differenziati interessi né il reperimento di un criterio oggettivo condiviso ed immutabile. Per il semplice motivo che, come ha dimostrato la storia - basti considerare l’approccio “morbido” nei confronti della Germania nel 2003 - il criterio oggettivo non esiste. 

Può esistere certamente una valutazione relativa alla sostenibilità, che tuttavia non discende automaticamente dal valore del rapporto debito/Pil o dal livello del debito. In altre parole, un Paese può sopportare tranquillamente un debito elevato e costante in presenza di un Pil stagnante, come è il caso del Giappone; oppure un forte incremento del debito in presenza di una volatilità molto accentuata del Pil, come negli Stati Uniti. 

Il tutto dipende dalle condizioni dei mercati.

Nel 2012, all’epoca della crisi del debito sovrano, il sistema era ancora stressato dagli effetti della crisi finanziaria avvenuta a cavallo del 2008, le banche erano state costrette a contenere il credito, mentre gli Stati furono obbligati ad iniettare liquidità nelle rispettive economie, con il risultato di produrre un repentino peggioramento dei conti. 

Gli operatori di mercato iniziarono così a dubitare della capacità di resilienza del sistema e si avviò una fase rischiosissima, che ebbe fine solo con l’intervento della Bce, con il famoso “whatever it takes” del presidente Mario Draghi, che portò al Quantitative easing, cioè al finanziamento del debito pubblico mediante la creazione di base monetaria. Ma, all’epoca, il livello del debito era inferiore a quello di oggi.

Successivamente, gli interventi delle autorità monetarie hanno reso il sistema bancario più solido e anche oggi, nel corso di una guerra, l’accresciuto livello di debito sembra non in grado di originare irrisolvibili problemi di stabilità. Forse anche grazie alla disponibilità di denaro sui mercati mondiali, agevolata dalla crescita dei tassi di interesse.

Spesso conta anche l’opinione diffusa tra gli operatori circa l’efficienza del sistema produttivo sottostante. Circostanza che per quanto riguarda l’Italia si sta dimostrando una realtà.

Se si esaminano tutti gli aspetti del problema, si potrebbe perciò concludere che, malgrado le attuali non facili circostanze, l’adeguata capacità produttiva, la solidità del sistema del credito, la disponibilità di liquidità nei mercati ed infine la definizione di una manovra di bilancio ragionevolmente prudente, nel breve periodo il debito italiano sia sostenibile, e quindi non costituisca un pericolo né per noi né per i nostri partner europei.

In ogni caso, molte proposte sono in campo per ridurre lo stock di debito: dalla messa a valore dei beni pubblici, alla vendita di quote di patrimonio, al ricorso alla leva fiscale, continuativamente o una tantum. Tuttavia, la sola strada che garantisce un percorso virtuoso è quella che passa dal contenimento della spesa pubblica. 

A chi afferma che è impossibile operare tagli efficaci, si potrebbe controbattere che, quando ci si ritrova in condizioni di bilancio non in pareggio, basterebbe non disporre nuove spese, memori di quanto affermava, ne “Lo scrittoio del Presidente” Luigi Einaudi, quando si domandava, a proposito delle decisioni di spesa pubblica, se «possiamo noi dunque partire dalla premessa che, poiché un dato disavanzo era previsto al principio dell’anno finanziario, il disavanzo medesimo sia considerato come una specie di idolo a cui non si possa recare offesa tentando di farlo scomparire?».

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