Il populismo di governo
non ha senso

di Alessandro Campi
Martedì 4 Ottobre 2022, 23:45 - Ultimo agg. 5 Ottobre, 07:35
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Per Matteo Salvini, che ieri il consiglio federale della Lega ha formalmente blindato nel ruolo di segretario e ha formalmente candidato per il Viminale , il momento non è dei migliori (sempre meglio tuttavia di quel che è capitato a Letta, anche lui sconfitto alle urne e subito dimissionato). Dall’interno della stessa Lega deve contrastare le accuse dell’ala nordista e indipendentista, coagulatasi in questi giorni intorno al redivivo Umberto Bossi. 

Dall’esterno del partito, deve scontare il malumore della sua storica base elettorale, a partire dagli industriali del lombardo-veneto, che in massa lo hanno abbandonato per rifugiarsi sotto le insegne di Fratelli d’Italia.

I primi gli rimproverano, più che l’eccesso di leaderismo o le amicizie internazionali non sempre opportune, la rinuncia al mito della Padania libera e sovrana. La sua colpa, dicono, è di aver trasformato il Carroccio in un partito “italiano”, finendo per snaturarlo. Si tratta dunque di tornare alle origini: alla Lega sindacato territoriale del Nord, nemica dell’assistenzialismo di Stato e delle liturgie politiche romane. Alla Lega celtico-pagana d’un tempo, attraversata da umori libertari e ribelli, e nel frattempo divenuta sin troppa bigotta e clericale.

A pensarla così è soprattutto la vecchia guardia leghista, personaggi a loro modo storici come Roberto Castelli, Roberto Maroni, Francesco Speroni, appunto Umberto Bossi. Figure senza più ruoli nel partito. Il che rende le loro critiche taglianti sul piano verbale (nonché una manna per la stampa che detesta Salvini) ma poco efficaci su quello politico. La differenza potrebbero farla i governatori leghisti in carica: ma il loro malumore nei confronti del Capitan0 non si è ancora trasformato in dissidenza aperta. Nessuno, tra i leghisti che hanno ruoli istituzionali e di governo, ha messo in discussione la sua leadership nel partito. Da un lato si attende la nascita del nuovo governo, dall’altro si guarda ai prossimi appuntamenti elettorali a livello amministrativo. La resa dei conti, secondo molti osservatori, è solo rimandata.

Nell’immediato, più preoccupante per Salvini è dunque il malessere crescente nei suoi confronti dei ceti produttivi che della Lega sono stati per lungo tempo il più importante sostegno elettorale. Gli agricoltori della Coldiretti nei giorni scorsi a Milano hanno accolto Giorgia Meloni con grandi applausi e ovazioni, le stesse un tempo a lui riservate.

Due giorni fa, intervenendo a Varese, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha invece invitato il futuro governo a concentrarsi sul sostegno alle imprese e alle famiglie e a lasciar perdere flat tax e riforme delle pensioni. Guarda caso proprio i due temi sui quali la Lega salviniana ha più investito durante la recente campagna elettorale.

Le posizioni assunte dalle due organizzazioni, tra le più importanti e rappresentative del nostro tessuto economico, potrebbero sembrare una classica forma di riposizionamento tattico. Un modo, molto italiano, di correre in soccorso del vincitore e del forte del momento. Non si può escluderlo nel Paese del trasformismo e dei poteri corporativi capaci di sopravvivere a qualunque contingenza politica o cambio di maggioranza. Ma in questo caso il rimprovero rivolto alla Lega da parte di chi un tempo la sosteneva o simpatizzava per le sue posizioni, materializzatosi nel brusco calo elettorale dello scorso 25 settembre, sembra rispondere meno all’opportunismo e più ad una preoccupazione politica reale.

Il messaggio critico rivolto esplicitamente a Salvini, ma implicitamente anche a Giorgia Meloni nella sua veste di Presidente del Consiglio in pectore, è che lo stile d’agitazione populista, per quanto efficace possa risultare quando si va a caccia di consensi, si rivela drammaticamente inadatto quando si hanno responsabilità di governo.

Giocare con gli umori delle masse in fondo è facile (e redditizio, ma sul breve periodo). Assai meno lo è rispondere in modo efficace ai bisogni concreti dei cittadini.

Non solo, ma quello che non ci si può più permettere, in una fase critica e difficile come quella che stiamo vivendo ormai da anni, è un eccesso di discrepanza fra il dire e il fare, tra le promesse e le realizzazioni. Tra ciò che si dice di voler fare e ciò che concretamente, responsabilmente, pragmaticamente si può fare. Se nel passato si è abbondato con la politica degli annunci, ora è giunto il tempo delle opere. Magari poche, ma concrete, visibili, effettive.

Salvini, agli occhi di molti suoi sostenitori e simpatizzanti d’un tempo, alle ultime elezioni ha pesantemente pagato non tanto il progetto ambizioso di fare della Lega un partito nazionale invece che confinato entro un’inesistente Padania. Quanto il suo eccesso di movimentismo, i suoi continui cambi di fronte e alleanze, il suo cavalcare battaglie sempre diverse, i suoi sbalzi d’umore politico, il suo spirito da crociato e da propagandista sempre a caccia d’un bersaglio grosso. In altre parole, la sua relativa inaffidabilità e instabilità in una stagione politica nella quale tutti – vuoi la pandemia, vuoi la guerra – cercano l’esatto contrario: punti fermi, minime certezze, appigli, beni politici potenzialmente durevoli.

Ne discende che se tantissimi elettori di centrodestra a Salvini hanno preferito Giorgia Meloni è perché quest’ultima, pur non essendosi risparmiata in passato toni barricadieri, durante quest’ultima campagna elettorale ha preferito un atteggiamento prudente e moderato, ha evitato di sbilanciarsi in promesse destinate a restare tali, lasciando intendere chiaramente che in caso di vittoria alle urne la gioia del risultato avrebbe dovuto lasciare il passo al senso di responsabilità e al dovere della serietà.

Una diversità di approccio che si è vista bene durante tutta la campagna elettorale. Mentre Matteo Salvini chiedeva a gran voce un massiccio scostamento di bilancio per fare fronte al caro bollette e alle difficoltà delle famiglie, Giorgia Meloni – beccandosi l’accusa paradossale di “draghiana” – richiamava la necessità di non aggravare ulteriormente il debito pubblico e di studiare misure di sostegno alternative. A giudicare dal risultato elettorale, parte significativa del mondo produttivo italiano, proprio perché in grande difficoltà, ha preferito l’atteggiamento più prudente e rigorista della seconda alle ricette sin troppo facili – potenzialmente più dispendiose che risolutive – del primo.

Il che conferma che col voto del 25 settembre non sono cambiati solo gli equilibri politici e i rapporti di forza all’interno della coalizione di centrodestra, ma si è modificato il clima sociale nel suo complesso. E’ insomma finita la fase politica di cui proprio Salvini col suo stile roboante è stato per anni uno dei principali protagonisti. Gli sopravvive, nel ruolo di capopopolo e di agitatore di folle, il suo antico sodale, poi nemico giurato, Giuseppe Conte. Ma chi sta all’opposizione può concedersi il lusso della demagogia. Chi vuole stare al governo, come Salvini in questo complicato tornante, semplicemente no. E’ questa la scelta, nel segno della responsabilità, che gli chiedono di fare imprenditori piccoli e grandi, a partire proprio da quelli del Nord, altro che tornare a invocare la secessione della Padania o a inveire contro Roma ladrona e i burocrati di Bruxelles.

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