Il voto cattolico
e il rapporto con la Chiesa

di Alessandro Campi
Lunedì 15 Ottobre 2018, 23:02
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Qual è il ruolo dei cattolici nell’attuale contesto storico? E quali sono (se esistono) le nuove forme di partecipazione dei credenti alla vita pubblica? Sono condannati, come alcuni sostengono, ad avere sempre meno peso politico? La clamorosa sconfitta in Baviera della Csu, lo storico partito cristiano democratico, rende ancora più attuali gli interrogativi al centro dell’intervista che ha rilasciato a questo giornale il cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione dei Santi presso la Santa Sede.
Quest’ultimo, sulla scia di Paolo VI, ha auspicato una nuova stagione di impegno politico nel segno dei valori cristiani. Spiegando al tempo stesso che non potrà più trattarsi di un contributo organico affidato alla capacità di rappresentanza di un unico partito, ma di uno sforzo da affidare a singoli «uomini coraggiosi». In effetti, la questione del pluralismo nelle scelte elettorali dei cattolici e della fine della loro unità politica deve considerarsi risolta ormai da molti anni, da quando cioè è scomparsa la Democrazia cristiana . Il problema oggi, come anche il Cardinale Becciu ammette, non è tanto la dispersione politica dei cattolici, ma la possibilità che la loro presenza sulla scena pubblica diventi sempre meno incisiva.
Certo, la Cei e le gerarchie vaticane rappresentano ancora una voce autorevole nel dibattito sui grandi temi politico-sociali. Ma si tratta, questa l’impressione, di una presenza istituzionale e largamente convenzionale, non sostenuta a livello di società civile dal mondo dei credenti laici. C’è oggi un solo intellettuale cattolico, riconosciuto come tale a livello pubblico, che intervenga nel dibattito politico-culturale o che abbia un minimo di visibilità (e autorevolezza) mediatica? Se ancora certamente resiste una rete organizzativa capillare che fa capo al mondo cattolico, ivi compresi giornali e case editrici molto vivaci, è anche vero che sembra trattarsi di un’Italia parallela a quella ufficiale e per certi versi segreta, poco capace di farsi sentire all’esterno se non nelle polemiche che più facilmente incrociano gli interessi e la sensibilità della cultura progressista mainstream, come sul tema dell’immigrazione e dell’accoglienza. Quando questi stessi cattolici provano a farsi sentire sul tema della famiglia o dell’aborto già le loro posizioni interessano meno. 
Quest’afonia (che non vuole dire automaticamente marginalità, anche se rischia alla lunga di produrla) è ovviamente il frutto di molti fattori. Uno di questi è quel grandioso fenomeno culturale (e dunque anche politico) che potremmo definire di progressiva scristianizzazione della storia europea. È qualcosa di più della secolarizzazione, che un tempo si imputava al diffondersi di una mentalità scientifico-razionale incompatibile con qualsiasi tipo di credenza religiosa: è piuttosto la volontaria rinuncia a riconoscere, anche in una prospettiva laica, il ruolo dirimente che la religione ha svolto nel secolare processo di costruzione delle nazioni che attualmente compongono questa parte di mondo. 
È una sorta di «perché possiamo non dirci più cristiani» che implica non tanto una generica crisi dei valori, quanto uno spaventoso vuoto di memoria storica, particolarmente avvertito nelle nuove generazioni. L’idea di considerare tabù il tema delle radici religiose e spirituali dell’Europa, nel timore che possa intaccare la pacifica convivenza di società avviate sulla strada del multiculturalismo, spiega perché molti credenti abbiano ormai come l’impressione di vivere in un territorio ostile, impegnati a testimoniare ideali che la cultura dominante considera anacronistici quando non pericolosamente regressivi rispetto ad un modello politico-sociale basato non più, come si diceva sino a qualche tempo fa, sul pluralismo dei valori, bensì sulla loro neutralizzazione e rimozione dalla sfera pubblica.
Un fattore non meno rilevante può essere considerato il corso seguito dall’attuale pontefice. Alle difficoltà del suo magistero, si aggiunge da parte di papa Francesco una visione della Chiesa che per rappresentarsi agli occhi del mondo non deve più affidarsi alla forza carismatica, al prestigio sociale e alla capacità d’indirizzo dogmatico e pastorale degli uomini che ne costituiscono il vertice istituzionale, ma al popolo dei credenti e all’interno di quest’ultimo ai sofferenti, agli ultimi, ai diseredati. Quella caldeggiata da Francesco è una Chiesa anti-gerarchica, che si vuole lontana dalla politica istituzionale, di denuncia del potere e dei suoi (fisiologici) abusi, che come tale rischia però di condannarsi ad un ruolo critico-testimoniale, di opposizione, laddove la vera scommessa del cattolicesimo politico storicamente è stata quella di entrare nei meccanismi del potere e del governo secolare per indirizzarlo, nei limiti del possibile e dell’umano, secondo valori trascendenti. 
Detto questo, il tema dei cattolici nel loro rapporto con la dimensione politica rischia di essere mal posto dagli stessi che ne parlano con preoccupazione. L’idea che un numero crescente di credenti stia rinunciando a qualunque forma di impegno o presenza non tiene conto di due realtà, ben evidenti nel contesto italiano. La prima riguarda coloro che, pur restando soggettivamente ben ancorati ai propri valori religiosi, semplicemente non basano più le proprie opzioni politico-elettorali sul credo professato. E’ quella che potremmo definire la privatizzazione della religione. Si rimane cattolici nella dimensione individuale, ma si ritiene che la sfera politico-istituzionale obbedisca a regole di funzionamento e a valori che, seppure per il credente non possono contrastare con quelli religiosi, nemmeno possono esserne il riflesso o la mera prosecuzione. 
Più delicata e controversa la seconda questione. Il voto in Italia dello scorso 4 marzo, con il grande successo del M5S e della Lega, ha mostrato che molti cattolici, in coerenza con la loro religiosità e col loro modo di intendere la fede, hanno scelto partiti e posizioni politiche che non sono quelli cui andavano le simpatie più o meno larvate del mondo cattolico ufficiale e delle stesse gerarchie vaticane. Questa discrepanza tra base cattolico-popolare e cattolicesimo istituzionale come fenomeno è persino più allarmante del disimpegno dei credenti dalla vita politica. Essa infatti rischia di mettere in discussione le scelte dell’attuale papato (ad esempio in materia di immigrazione) e di avallare l’idea di una crescente distanza tra quest’ultimo e una massa di credenti che fatica a condividerne gli orientamenti e lo stile pastorale. Ed è la ragione per cui si tende a parlare poco di questa realtà, che però, come ha appena dimostrato il voto in Germania, comincia a riguardare anche i credenti degli altri Paesi.
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