In lode del vecchio hubble: telescopio a fine corsa

di Massimo Capaccioli
Sabato 30 Luglio 2022, 23:51 - Ultimo agg. 31 Luglio, 07:00
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«Niente è eterno e duraturo per chi è caduco. È inevitabile tanto perdere la vita quanto i beni e, se lo comprendiamo, proprio questo è un conforto. Impara a perdere tutto serenamente», sentenziava con disarmante pacatezza il filosofo e politico romano Lucio Anneo Seneca nel 65 d.C. scrivendo all’amico Lucilio il Giovane, suo colto corrispondente: un homo novus di origine campana impegnato nella gestione della provincia siciliana per conto dell’imperatore Nerone. Diciannove secoli dopo lo spagnolo Federigo Garcia Lorca avrebbe ripreso il concetto con ispanica passione, piangendo la tragica scomparsa d’un amico torero: “Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare”. Insomma, tutto muta e ogni cosa finisce ma, dice il poeta latino Ovidio nelle Metamorfosi, per dar la vita a cose nuove, almeno sino a quando vi sarà energia libera per fare lavoro, aggiungono gli astrofisici. Un giorno, forse, persino l’universo, dopo un lungo percorso di cambiamenti, si spegnerà: una morte termica geneticamente impressa nel Dna del nostro mondo all’atto della nascita, 13,7 miliardi di anni fa.

In queste condizioni non possiamo stupirci – anche se è lecito dolersene come si fa sempre per elaborare un lutto – che il glorioso telescopio spaziale Hubble, noto con l’acronimo di HST, stia per chiudere il suo unico occhio in attesa di precipitare a terra, mutilato dall’usura e spossato dalla lenta ma tenace azione frenante dell’atmosfera. Accadrà nei prossimi anni, quando la Nasa che lo ha accudito per tre decenni, ben oltre l’aspettativa di vita ipotizzata dai progettisti e dal budget di gestione, non riuscirà più a tamponare, con magici interventi da remoto, i segni dell’età. Quando verrà il tempo dell’eutanasia, la prodigiosa macchina sarà spenta in attesa che, ormai incapace di opporsi alla gravità terrestre, effettui la sua ultima orbita consumandosi, come in una pira, per consegnarsi definitivamente alla storia. Dalla sua lontana postazione, a 1,5 milioni di chilometri da noi e in direzione opposta al Sole, il suo successore, il James Webb Space Telescope, ormai saldamente in servizio, ove sapesse pensare e assistere alla scena, non potrebbe che commentare pensando a sé: “morto un re, se ne fa un altro”. In effetti, a partire dagli anni ’90 HST è stato il re dell’astrofisica. Ha prodotto 1,5 milioni di osservazioni che si sono tradotte in quasi 20-mila lavori scientifici: una messe imponente di risultati che hanno inciso profondamente in tutti i campi dell’astrofisica e della cosmologia sino a divellere vecchi paradigmi per crearne di nuovi. Un esempio per tutti: la scoperta dell’espansione accelerata del cosmo. Prima di raccontarvelo, lasciate che vi ricordi con qualche flash quali sono le caratteristiche più salienti di HST.

L’idea di collocare un grande telescopio in orbita terrestre bassa, vagheggiata sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale dall’astronomo Lyman Spitzer, cominciò a circolare nella comunità scientifica americana dopo il fortunato volo dell’Apollo 11 alla Luna. Nel 1972 un comitato istituito dall’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti con l’incarico di individuare le priorità scientifiche per il successivo decennio raccomandò la costruzione di uno strumento che, osservando dallo spazio in condizioni di vantaggio rispetto ai telescopi terrestri perseguitati dalla turbolenza dell’atmosfera, risolvesse una volta per tutte l’annoso problema della scala dell’universo. Si trattava di misurare con precisione una sorta di metro cosmico fondamentale, chiamato costante di Hubble, sul cui valore si stavano scontrando, non senza colpi bassi, gli ingegni migliori dell’astronomia mondiale. Nacque così il progetto dell’Hubble Space Telescope, un riflettore con uno specchio primario di 2,4 metri, lungo oltre 13 metri, più o meno quanto un camion, e largo 4,2 metri, con due enormi orecchie per raccogliere la luce del Sole e farne l’energia necessaria al funzionamento dei diversi apparati. La sfida tecnologica era di quelle capaci di entusiasmare una nazione orgogliosa dei propri primati. Ma non sempre le ciambelle riescono col buco, anche ai cuochi migliori. Il lancio previsto nel 1983 dovette essere rinviato di 7 anni per problemi tecnici, per il fisiologico sfondamento del budget (clamoroso in questo caso: da 400 milioni a 4,7 miliardi di dollari) e per il disastro dello shuttle Challanger, che impose una lunga sosta ai voli del taxi spaziale americano.

Finalmente, rannicchiato nel vano di carico dello shuttle Discovery, nel 1990 Hst venne portato in orbita, a una quota di quasi 600 km (lo shuttle non saliva oltre), e lì abbandonato al suo destino, confidando che il purosangue non abbisognasse di palafrenieri umani.

Previsione errata. Ricomposto dai tecnici della Nasa operanti nelle stazioni di terra, il telescopio, che intanto aveva preso a girare attorno al pianeta ogni 95 minuti a passo sostenuto (circa 8 km al secondo), cominciò a guardare il cielo. Da allora avrebbe spedito agli astronomi affamati di informazioni una media di 150 Gbyte di dati alla settimana, pari a decine di migliaia di file musicali Mp3. Il guaio è che le prime immagini, ancorché belle, non avevano la qualità attesa. Fu presto chiaro che la causa si nascondeva in un difetto costruttivo. Il purosangue aveva un chiodo nello zoccolo che lo faceva zoppicare e i suoi robot non riuscivano a toglierlo. Serviva l’intervento dell’uomo; e così nel 1994, per la prima volta nella storia, degli “operai specializzati” in tuta spaziale vennero scaricati dallo shuttle a ridosso di Hst in modo da poterlo rimettere in sesto lavorando “en plein air” (se lassù ci fosse l’aria). Fu un grande successo che a distanza di quasi trent’anni bissava quello del russo Aleksej Leonov, il primo a passeggiare nello spazio. Da allora il telescopio spaziale della Nasa ci ha regalato spettacolari immagini dei corpi celesti e un grande numero di scoperte, talvolta così rivoluzionare da cambiare del tutto la narrazione scientifica di una classe di fenomeni.

Questo è appunto il caso dell’inaspettata scoperta dell’espansione accelerata del cosmo, fatta nel 1998 dagli americani Saul Perlmutter, Brian Schmidt e Adam Riess, poi premiati col Nobel nel 2011. I tre stavano usando Hst per studiare una peculiare classe di fenomeni causati dalla disintegrazione delle cosiddette nane bianche, stelle di massa medio-piccola che qualche volta devono pagare lo scotto di vivere a stretto gomito con una invadente compagna. Lo scopo era di sfruttare queste “supernovae di tipo Ia” come metri cosmici in modo da ricavare quella famosa costante di Hubble per misurare la quale il telescopio spaziale era nato. Trovarono invece che il cosmo, vissuto dai suoi primi istanti di vita a spese del Big Bang iniziale espandendosi a passo sempre più lento (come fa un’auto lanciata in folle su per una salita), 4,5 miliardi di anni fa aveva preso ad accelerare sistematicamente: una cosa possibile solo con la presenza di un motore. Ancora oggi non sappiamo con certezza chi sia questo motore (forse l’espressione di una peculiare proprietà del vuoto quantistico), ma almeno gli abbiamo dato un nome, “energia oscura”, e un ruolo. Una mappatura dettagliata del fondo cosmico di microonde eseguita da altri osservatori spaziali ci dice che l’energia oscura rappresenta i 3/4 dell’intero budget di massa-energia del cosmo. Niente male per uno strumento di 2,4 metri di apertura, nato male e surclassato, per dimensioni, da molti giganti sulla Terra (e oggi anche in cielo)!

“La vita è come un dramma; non conta quanto è lunga, ma se viene rappresentata bene. Non importa dove finisci. Finisci dove vuoi, basta che tu chiuda bene”. Ancora un ammonimento di Seneca all’amico Lucilio. Se lo applichiamo a Hst, dobbiamo concludere che il telescopio dell’agenzia spaziale statunitense è vissuto a lungo e molto bene, fatta salva un’infanzia difficile seppur avventurosa. Per questo eroe dei nostri tempi non ci sarà una tomba in Santa Croce con cui accendere “a egregie cose il forte animo”. Restano però come altrettanti monumenti le sue scoperte; e tali resteranno anche quando il più potente Jwst le avrà ridimensionate, perché la filosofia della natura è un’attività umana progressiva. Essa è come un muro di mattoni, dove quelli più in basso, invecchiati dal tempo, continuano però a sostenere i più recenti e nuovi posti in cima.

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