Se l'industria culturale sforna solo precari

di Andrea Di Consoli
Venerdì 15 Ottobre 2021, 06:00
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Cosa s'intende esattamente per lavoro culturale? In che modo è possibile definire le professioni in ambito culturale? E com'è lo stato di salute del lavoro culturale a Napoli? Un tempo chi lavorava nel mondo della cultura aveva pochi e precisi ambiti operativi: l'università, la Rai, i quotidiani, l'editoria, i beni culturali in ambito statale, il cinema, il teatro.

Oggi le possibilità parrebbero molto più ampie di un tempo, anche grazie all'utilizzo e alle potenzialità di internet, ma la sensazione che si ha è di un settore fortemente parcellizzato e precario, con un'offerta che non ha nessuna corrispondenza con la domanda. Ovviamente stiamo parlando di industria culturale, non di cultura in senso puro, che può manifestarsi al di fuori di qualsiasi logica economica e industriale.

Rispetto al passato sono cambiate molte cose. Anzitutto il numero dei laureati in materie creative e la percentuale di persone che puntano tutto sul proprio talento artistico. Dalla musica al cinema, dalla letteratura al giornalismo, sono decine di migliaia le persone che provano a realizzare una vocazione creativa che spesso non ha nessuna possibilità di essere assorbita dal mercato.

Questo sta determinando una sorta di neo-proletariato culturale, fatto di migliaia di persone che vivono di piccoli lavoretti, di ruoli occasionali, di ingaggi saltuari, di successi effimeri, quasi sempre pagati poco e male.

Questa precarietà del mondo culturale non è esattamente una novità; ma l'avvento di internet, e la moltiplicazione vorticosa di creativi, ha determinato una sovrabbondanza di domanda. Tanto che vivere di cultura a Napoli è molto difficile, anche se è uno dei settori più ambiti e ricercati.

Un altro aspetto che va sottolineato è che l'industria culturale napoletana ma non solo napoletana, ovviamente è troppo spesso riconducibile a meccanismi diretti o indiretti di politiche pubbliche. Dal cinema al teatro, dai festival ai grandi eventi, è quasi sempre la finanza pubblica anzitutto regionale a innescare processi concreti e tangibili. Questa pervasività del pubblico determina una inevitabile ingerenza organizzativa e contenutistica da parte dello Stato in tutte le sue articolazioni, tanto che si può parlare di una crescente arte di Stato, anche se la formula ha un suono eccessivamente sinistro. 

Un esercito di scrittori, sceneggiatori, fumettisti, registi, fonici, montatori, artisti, cantanti, ballerini, attori, giornalisti, illustratori, grafici, traduttori, uffici stampa, ecc. è in perenne attesa di un'occasione, di una collaborazione, di un'opportunità di lavoro.

Ma spesso il mercato un mercato, ripetiamo, quasi sempre eterodiretto dalle finanze pubbliche offre risposte saltuarie e precarie, rendendo fragile il comparto culturale. Purtroppo fare impresa culturale privata è molto complicato. Si pensi al teatro o al cinema se non ci fossero azione di sostegno statale come il tax credit, di fatto l'industria cinematografica subirebbe un immediato dimezzamento. Per non parlare del teatro non d'intrattenimento, di fatto fuori mercato. 

Che fare, dunque? Cosa dire alle migliaia di giovani che tentano la strada artistica e culturale? Forse questo: che bisogna analizzare con molto realismo il proprio talento e la concreta situazione del mercato. Solo una profonda autoanalisi può portare a decongestionare un'offerta pletorica che rischia di creare generazioni di precari a vita. E lavorare meglio nelle scuole per far capire concretamente in che direzione sta andando il mercato del lavoro. Perché è inutile sfornare esperti di comunicazione e giornalisti generici se la domanda di lavoro è già ampiamente soddisfatta. Il realismo è certamente un momento duro dell'autocoscienza, ma è assolutamente necessario dire che vivere di cultura è estremamente difficile, perché a contare sono anche talenti laterali non codificati quali la capacità di creare relazione e saper costruire reti e appartenenze.

Una cosa è certa: non può essere lo Stato a creare un'industria culturale il rischio è quello di creare una forma di assistenzialismo lussuoso di massa. Così com'è certo che c'è un deficit di analisi su cosa significhi per un privato investire in cultura a Napoli in cultura, non in turismo, che troppi tendono a confondere. Ma avere così tanto disoccupati o sotto-occupati in ambito culturale è uno spreco che nel migliore dei casi si risolve con l'emigrazione e, nel peggiore, con un rancore sordo che non fa che aumentare la rabbia per una città dove ogni idea sembra un'utopia, e ogni sogno una montagna impossibile da scalare.

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