Inge, quell’eterna ragazza
in fuga dalla malinconia

di ​Giuseppe Montesano
Giovedì 20 Settembre 2018, 22:50
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Il fatto è che lei era mitologica. Ho incontrato Inge Feltrinelli poche volte. Ma tutte le volte travolto da quella sorta di spettacolare energia che sembrava sospingerla senza requie, sempre alla ricerca di qualcosa che però pareva sempre sottrarsi alla sua presa: o che improvvisamente la annoiava sospingendola altrove. 
Eravamo al Salon du Livre di Parigi del 2003, da poco la Feltrinelli aveva pubblicato un mio romanzo, e non ricordo più come e perché ma mi ritrovai afferrato e trascinato sulla diligenza-Inge. Ero con l’ufficio stampa di allora, e c’era Pino Cacucci, ma non ricordo altro che questa donna non alta e non grande che occupava tutto lo spazio con un sorriso che non aveva voglia di essere fasullo, e con un’alternanza stordente di silenzi improvvisi e trasognati e un torrente di parole, parole pronunciate in un pidgin che era un italiano modificato da accenti inglesi e tedeschi che lo rendevano deliziosamente anni Trenta. 
Dava l’impressione, Inge Feltrinelli, di volerti tirare fuori l’essenziale con uno sguardo o con una frase, e con quella concentrata attenzione che non può concederti però più di un tempo breve di cui devi approfittare per dire tutto che è l’arte dei grandi editori, che non sai esattamente a cosa pensino mentre ti parlano fissandoti con attenzione ma hai l’illusione che stiano pensando soltanto a te, lo scrittore che amano, lo scrittore che vogliono: un’arte istintiva che in Inge, che tutti sembravano adorare e allo stesso tempo temere, era accesa da una voglia di vivere che era, in una donna che aveva più di settant’anni, quella di una ragazzina. E la ragazzina, mi pare di ricordare vestita di rosso con sprazzi di giallo e un foulard che sembrava molto usato ma era ultrafashion, ci trascinò prima per il Salone e poi fuori, in città, al ritmo di una generalessa allo stesso tempo svagata, premurosa, intransigente e capricciosa: a piedi, in taxi, di nuovo a piedi, in un piccolo voyage in cui a un certo punto ti veniva da pensare «ma come fa, accidenti a lei, ad avere tanta energia se a me fanno male i piedi e mi sta anche venendo l’affanno», e mentre camminavamo lei parlava con tutti, pertinente e divagante, e tu avevi la sensazione che distrarti ti avrebbe fatto inabissare e sparire nel nulla. Ci fermammo a un bistrot, non si capiva se ci saremmo seduti o saremmo rimasti in piedi, sembrava stanca ma poi schizzava via, l’aperitivo per qualche motivo era deludente, la sosta troppo lunga, e poi andammo al ristorante dove andava “Marcello”, che era Mastroianni, dal quale Marcello spuntarono poi i nomi di mezzo cinema internazionale, ma così, davvero en passant e senza alcuna voglia di stupire, e poi nella soffice atmosfera appena un po’ decadente del ristorante, la conversazione che passava da tutto a tutto senza transizioni, con lei che a malapena assaggiava vino e cibo, e poi una deliziosa Tarte Tatin però con il grave difetto della crème fraiche per la quale scuoteva la testa dispiaciuta… Ma come restituire quello straordinario miscuglio di astuzia senza voglia di nascondere l’astuzia, di fanciullesca bizzarria e joie de vivre, e di momenti in cui una smorfietta quasi invisibile di malinconica tristezza le arricciava l’angolo delle labbra truccate da adolescente? 
L’avrei incontrata qualche altra volta, a Milano e a Napoli, e sempre investito da quel sorriso che ti dava l’illusione di essere guardato per davvero: un sorriso dietro il quale c’era una storia unica. La storia della bambina tedesca per metà ebrea che la madre manda in America per salvarla, che riesce da giovanissima e fascinosa ragazza a fotografare Hemingway come nessuno aveva fatto, che sposa l’uomo che aveva avuto il fiuto e il coraggio di pubblicare il Dottor Zivago in italiano battendo tutti gli altri editori, che con quell’uomo va nella Cuba di Fidel e che per quell’uomo deve occuparsi della casa editrice per la quale passano tutti i bei nomi della letteratura italiana e mondiale, la casa editrice che fa le copertine più pop dell’epoca e che ospita bizzarri e stravaganti e cosmopoliti e modernissimi, ma anche monumenti che nessuno conosceva prima che diventassero monumenti, come Tomasi di Lampedusa: fino al giorno del 1972 in cui l’uomo della sua vita muore cercando di compiere un attentato che avrebbe dovuto dare inizio a una rivoluzione comunista in Italia. E non è difficile pensare che quella morte assurda e terribile abbia aperto nella vita di Inge una ferita mai chiusa, ma intorno a quella ferita la sua energia e la sua passione divorante per la vita continuarono a fiorire, forse proprio come una protesta contro l’assurdo e la morte che brillava in certe sue risate in cui gli occhi stessi ridevano. 
Era mitologica, Inge Feltrinelli, ed è difficile credere che sia morta: e allora noi la salutiamo qui come si fa con gli amici che semplicemente partono, e la ringraziamo per essere stata l’eterna ragazza in fuga dalla malinconia che cercò sempre la vita contro la morte.
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