Insulti al Napoli, acrobazie del presidente Figc

di Francesco De Luca
Lunedì 19 Novembre 2018, 22:48
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Il presidente della Figc Gravina deve avere una doppia opinione sulla sospensione delle partite per i cori negli stadi, per quello schifo che si ascolta soprattutto quando gioca (e non gioca) il Napoli e che è stato denunciato da Ancelotti, uomo del nord che allena la più prestigiosa squadra del sud. Il 10 ottobre, prima di essere eletto, in un’intervista al Mattino commentava lo sfogo del tecnico dopo la scarica di insulti nello stadio della Juve.
Diceva Gravina: «Siamo alla mercé della legge del branco. Sospendere le partite per cori razzisti? Non è un’esagerazione. Le norme attuali puniscono i razzisti in maniera tollerante». A distanza di un mese, dopo l’elezione, il presidente nato in Puglia ha così replicato alla richiesta di Ancelotti di sospendere le partite in caso di insulti: «Dobbiamo stare attenti perché non possiamo correre il rischio di diventare prigionieri di quel gruppetto di soggetti che con qualche coro hanno la forza di non far giocare nessuna partita».
È il nuovo ruolo di presidente federale che spinge Gravina a questa moderazione e a non cogliere l’essenza del discorso di Ancelotti, che vuole migliorare il calcio italiano, dove è ritornato dopo nove anni di vincenti esperienze all’estero? Se ci sono, le norme vanno applicate e le partite vanno sospese, così come hanno fatto Irrati nel febbraio 2016 in Lazio-Napoli e Gavillucci nello scorso maggio in Samp-Napoli, solo loro anche se in tutti o quasi gli stadi italiani la città, la squadra (in particolare Koulibaly) e i napoletani sono insultati. È difficile capire che tapparsi le orecchie e far finta di niente (quale arbitro avrà il coraggio di sospendere una partita dopo le parole di Gravina?) rischia di fare alzare ulteriormente il livello della tensione tra le tifoserie? È evidente che nelle sue denunce il pluridecorato allenatore non si riferisce a cori banali ma a quelli più pesanti, non solo di matrice razzista. Si può tollerare fino a un certo punto, anzi il limite è stato da tempo superato: Benitez, spagnolo, protestò a viva voce per i veleni razzisti; Sarri alzò l’indice verso quei gentiluomini dei tifosi juventini che lanciavano insulti verso il pullman della squadra e adesso da Londra dà pieno appoggio alla proposta di Ancelotti di sospendere le gare, così come hanno fatto anche il ct della Nazionale Mancini e altri autorevoli esponenti di questo mondo. Il calcio italiano non ha stile e la conferma si è avuta al San Paolo in Napoli-Paris St. Germain, con Buffon insultato per l’intera partita, e al Meazza in Italia-Portogallo, con Rui Patricio che è stato accompagnato dall’urlo «merda» a ogni tocco di palla e Bonucci insultato dai suoi ex tifosi (ha ragione: chi indossa la maglia della Nazionale deve essere sempre rispettato). Se la rivoluzione culturale negli stadi è difficile (e temiamo che non interessi ai presidenti dei club, il cui unico obiettivo è la spartizione delle quote dei diritti televisivi, possibilmente senza intromissioni del governo), l’applicazione delle regole va invece pretesa. Se il “primo” Gravina, quello non ancora seduto sulla poltrona di via Allegri, riteneva giustamente che le punizioni verso gli ultrà razzisti fossero «tolleranti», allora si lavori per la riforma delle norme. È stato creato un tavolo tecnico sulla giustizia federale, lo guida Sibilia, vicepresidente vicario della Figc, e ne fa parte uno dei massimi esperti internazionali di diritto sportivo, Colucci, irpino da anni trapiantato a Bruxelles: quale migliore occasione per valutare inasprimenti di sanzioni nei confronti delle tifoserie che hanno perso il senso del limite?
La Federcalcio deve essere altro rispetto a quella in cui l’ex presidente Tavecchio chiamava «mangiatori di banane» gli extracomunitari (Opti Poba, ricordate?) e l’ex direttore generale Uva definiva «processo mediatico» quello a carico della Juve per i rapporti con i gruppi ultrà vicini alla ‘ndrangheta mentre erano in corso il processo giudiziario «Alto Piemonte» a Torino e l’inchiesta della Procura federale guidata dal prefetto Pecoraro, inviso al club bianconero. Questo deve essere il passato e bisogna provare a costruire un futuro migliore, non solo attraverso i risultati della Nazionale. Ancelotti sta conducendo una battaglia di civiltà con i suoi toni garbati ma fermi, come ha confermato ieri appoggiando in pieno il Var e il lavoro degli arbitri italiani. Ha una cultura che è nata in due splendide realtà calcistiche in tempi purtroppo lontani (la Roma di Liedlhom e il Milan di Sacchi) ed è cresciuta negli anni trascorsi in Inghilterra, Francia, Spagna e Germania. Va supportato dall’intero sistema e in particolare dal suo presidente De Laurentiis. L’allenatore che ha vinto tre volte la Champions League ci indica una strada per avviare la pulizia morale del calcio italiano, avvicinarlo ai modelli internazionali e liberarlo dal suo squallido provincialismo: sarebbe un clamoroso errore non seguirlo, anzi girarsi dall’altra parte.
 
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