Intercettazioni, dalla D’Addario a Consip: i casi ora vietati

Intercettazioni, dalla D’Addario a Consip: i casi ora vietati
di Gigi Di Fiore
Giovedì 2 Novembre 2017, 23:45
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È un gioco di ipotesi, su quello che è accaduto in passato e quello che poteva accadere se il testo approvato dal Consiglio dei ministri fosse stato già operativo. Un gioco a capitoli, che segue la successione dei nove articoli del provvedimento.

Registrazioni fraudolente. Sono quelle carpite da privati di nascosto. Quelle che, specifica il testo governativo, registrano incontri privati, telefonate, o anche messaggi in chat. Sembra un’ipotesi che vieta casi limite di diffusioni anche di conversazioni, o video, privati postati su Internet. Reclusione fino a quattro anni. E i servizi giornalistici con telecamerine nascoste? E i famosi colloqui che registrò con il telefonino Patrizia D’Addario per denunciare gli incontri a luci rosse di Silvio Berlusconi? Il testo li salva: non c’è reato, se la diffusione di riprese e registrazioni è legata a un utilizzo giudiziario, o anche a un «diritto di cronaca».

Difensori intercettati. Un tema controverso, che ha già scatenato le reazioni dei penalisti. Il provvedimento vieta la trascrizione dei colloqui tra difensore e indagato. I penalisti avrebbero voluto l’immediata interruzione della registrazione.

Conversazioni irrilevanti. È il punto in cui la discrezionalità di valutazione del pm è massima. Almeno nella fase iniziale delle indagini. È infatti il pm a dover decidere quali siano le registrazioni «rilevanti» per la sua inchiesta sia per l’oggetto del colloquio sia per i soggetti che parlano. Le parti e le conversazioni giudicate «irrilevanti» non possono essere trascritte. Cosa sarebbe accaduto per le intercettazioni tra Bruno Vespa e Salvatore Sottile portavoce di Gianfranco Fini, nel 2006? In molti colloqui si parlava di programmi televisivi, anticipazioni di puntate di Porta a porta, inserite nella mega-ordinanza (2100 pagine) che a Potenza dispose l’arresto di Vittorio Emanuele di Savoia. Sarebbero state considerate «irrilevanti» e non trascritte? E la famosa frase di Piero Fassino, che parla con Giovanni Console nell’inchiesta Unipol («Abbiamo una banca»), che fine avrebbe fatto? Di certo, anche con il decreto legislativo del governo la scelta spetta al pm che, se decide di inserire nel fascicolo investigativo un’intercettazione e relativa trascrizione che non riguarda strettamente indagati, deve farlo spiegandone le ragioni con «decreto motivato». Ma la conversazione deve essere valutata «di rilevanza per i fatti oggetto di prova».

Procedura. Entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni di intercettazioni autorizzate dal gip, i difensori vengono avvisati del deposito delle conversazioni. Possono quindi ascoltarle e chiedere al giudice di recuperare quelle escluse dal pm, se dovessero valutarle utili alla difesa. Decide il gip, che può rigettare la richiesta solo se ritiene le intercettazioni «manifestamente irrilevanti». Tutto il materiale intercettato è tenuto in un archivio, da creare a cura del pm che indaga, sotto la sorveglianza del procuratore capo. Sarà un nuovo onere organizzativo per gli uffici requirenti. L’ingresso all’archivio, con relativo ascolto, è consentito alla polizia giudiziaria, al pm, al gip e ai difensori anche con interprete in caso di intercettazioni su stranieri. Un accesso controllato con registro informatico, riservato. I difensori non possono chiedere copia di trascrizioni. E, questo, viene visto dai penalisti come un atto di sfiducia e quasi un sospetto che possano essere i difensori a diffondere all’esterno le conversazioni.
Segretezza. Se il pm decide la rilevanza delle intercettazioni da inserire nel fascicolo, sono segrete (e quindi in teoria non pubblicabili dai giornalisti) tutte le conversazioni escluse. Cosa sarebbe accaduto, con questa norma in corso, per le intercettazioni delle conversazioni Whatsapp tra Matteo Renzi e il padre? All’opposto, le intercettazioni inserite nel fascicolo investigativo non sono segrete. Ed è quindi il pm, nella prima scrematura, a fare la selezione tra il pubblicabile e il non pubblicabile sui giornali. Salvo, poi, la capacità dei cronisti di acquisire notizie e atti attraverso le proprie fonti. Di solito, sono le ordinanze di custodia cautelare, atti pubblici e pubblicabili se notificati agli indagati, i documenti dove sono inserite molte intercettazioni utilizzate dai cronisti. Il provvedimento del governo dà una stretta: delle conversazioni, possono essere inserite sia nelle richieste del pm sia nelle ordinanze del gip solo «brani essenziali» a motivare l’arresto.

Trojan. Anche questo è un tema delicato, che ha diviso i commenti. Sono i captatori informatici, i virus introdotti in telefonini e computer per carpire comunicazioni. Utilizzati in origine solo per reati di terrorismo e mafia, sono stati usati anche in altre indagini, come la famosa inchiesta Consip. Il decreto legislativo dice che i pm devono motivare per iscritto la necessità di usare i trojan. L’utilizzo è esteso per «accertare delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza». Se so che un corrotto comunica in codice sul telefonino per ricevere denaro, il trojan può diventare «indispensabile» a conoscere il luogo dove può essere preso con le mani nel sacco. Un esempio. Ma anche in questo caso è il pm che deve, con responsabilità, valutare l’utilizzo del virus. Non c’è indicazione specifica dei reati, nessuna cornice dettagliata, ma affidamento, con riferimento ai reati per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza, che affida la scelta alla professionalità del pm. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte, parla per questa parte di «aspetto debole della riforma». E fa riferimento alla sentenza a sezioni unite della Cassazione, che aveva invece ampliato il numero dei reati per cui si possono utilizzare i captatori informatici. Il decreto legislativo, invece, sembra limitarne l’utilizzo, anche se parifica le regole da applicare ai reati contro la pubblica amministrazione, con previsione di condanne non inferiore ai cinque anni, ai reati di mafia. Il richiamo all’articolo 13 del decreto legge del 1991 è chiaro: il captatore informatico è autorizzato «quando l’intercettazione è necessaria per lo svolgimento delle indagini». In domicili altrui, l’intercettazione è proibita se «non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa». Cosa sarebbe accaduto, con queste norme, per le intercettazioni, con captatore informatico, nel telefonino di Italo Bocchino durante l’indagine Consip?
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