Alleanza Pd-5Stelle, il giallo si è stinto

di Mauro Calise
Lunedì 28 Settembre 2020, 00:00
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Sarà colpa della retemania, col suo linguaggio al nanosecondo in cui pure uno slogan è troppo lungo. Figuriamoci un ragionamento. O, al contrario, è il frutto avvelenato del bisogno patologico – patetico – di stabilità che gli opinionisti invocano ogniqualvolta pontificano sulla politica e i governi. Ma fa un po’ tenerezza e un po’ rabbia il tentativo di classificare l’alleanza tra democratici e grillini in uno schema ideologico e programmatico normale. Per intenderci, destra-sinistra, o riformisti-populisti, o – udite, udite – pro e anti-sistema. 

Nel bel mezzo di una crisi pandemica che poco ci è mancato che spazzasse via le democrazie da tutto il globo, e siamo solo agli inizi del fenomeno, l’interrogativo che assilla il ceto politico e mediatico è se e come sia davvero possibile tenere insieme due partiti che il voto ha confermato essere molto diversi. Riusciranno finalmente ad allearsi anche nell’urna oltre che nelle poltrone di governo, dalle quali non sembrano intenzionati a scollegarsi? E potranno convincere i seguaci, visto che sia nelle Marche che in Liguria – dove i tapini ci hanno provato – i risultati sono stati disastrosi?

La risposta, ovviamente, è no. Un secco, lapidario, no. La stessa che avrebbero dato Aldo Moro ed Enrico Berlinguer a chi gli avesse domandato se per caso, sulla strada del compromesso storico – già così maledettamente complicata – non stessero pensando di fondersi in un’unica sigla elettorale. Si, lo so che state pensando che una domanda così idiota nessuno gliel’avrebbe rivolta. Come nessuno avrebbe chiesto ai socialisti – alleati di buongoverno e molto a lungo in tantissime giunte locali – perché non facessero un bel balzo e si portassero a Palazzo Chigi, nel cuore del governo centrale, i cugini con cui stavano a braccetto in tante realtà territoriali. Eppure stiamo parlando di un’era – e di un regime – in cui gli steccati – ideologici, del fattore k e geopolitici – erano ben più rigidi e potenti di quelli che oggi orientano – si fa per dire – le scelte dei nostri partiti. No, né Moro né Berlinguer né i leader – massimalisti o riformisti – socialisti hanno mai pensato di squadrare in una formula perentoria e univoca la complessità della vita politica dell’epoca. Immaginate quella attuale, che ci sfugge letteralmente tra le dita prima ancora che proviamo a interpretarla.

Dunque, meglio rassegnarsi. Non c’è modo che Cinquestelle e Pd si uniscano in un’alleanza organica. Al tempo stesso, non c’è possibilità – almeno, fino alla fine della legislatura – che si separino. Chiamatele convergenze parallele, o compromesso temporaneo (la Storia è finita da un pezzo). Caso per caso, città per città, potrà anche darsi che proveranno a mettersi sotto la stessa bandiera elettorale. Ma senza risultati eclatanti. E soltanto se costretti dalle forche caudine del maggioritario. Ed è qui che troviamo l’unico scoglio di questa fase. La scelta della legge elettorale. Con il rischio crescente di scissioni che agitano il Movimento, la sola idea di un ritorno al Mattarellum è un anatema insopportabile. E lo è anche per Zingaretti, ben consapevole che si tratterebbe di un risico che non può consentirsi. Con il venti per cento stiracchiato che riesce miracolosamente a mantenere, riesumare il mito veltroniano della vocazione maggioritaria sarebbe, semplicemente, un suicidio. E perché poi? Certo non per garantire stabilità all’esecutivo. Visto il ribaltone che Prodi subì per ben due volte soltanto un paio d’anni dopo le vittorie. E visto lo stillicidio subito da Berlusconi dopo il suo trionfo elettorale del 2008, culminato nel disarcionamento dal governo con un papa straniero. 

No, l’unica vera spinta per un ritorno al maggioritario viene da chi sa bene che il suo potere d’interdizione ne guadagnerebbe moltissimo, mentre ci rimetterebbe nel caso che si votasse col proporzionale. Nome in codice: Renzi. Conoscendo la spregiudicatezza – e l’abilità – del fiorentino, state certi che giocherà bene le sue carte. Alias, i seggi che controlla in parlamento e che potrebbero far saltare il banco. Se gli va male, porterà a casa una sogliola di sbarramento, cioè una soglia piatta piatta. Se gli dovesse andare bene, finirà col far esplodere il sistema. Gli è già accaduto una volta, suicidandosi con le proprie mani. Non è detto che non ci riprovi.



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