Una moto piomba a folle velocità in una via stretta e piena di persone, un gruppo di passanti viene colpito assieme a una donna – moglie del titolare di un ristorante della zona – che resta gravemente ferita e che solo per un caso non muore, i due motociclisti tornano pochi minuti dopo a riprendersi il mezzo spalleggiati da una trentina di compari che minacciano il commerciante di non denunciare il fatto, a meno che non voglia vedere il suo locale saltare in aria con una bomba.
Immaginate questa sequenza in una grande città italiana, una qualsiasi. Roma, Milano, Firenze, Bologna. Pensate al diluvio di servizi del telegiornale, interrogazioni parlamentari, dichiarazioni ufficiali del ministro dell’Interno, dispiego muscolare di forze dell’ordine, perquisizioni, indignati editoriali di sociologi e filosofi. Fatto? Ora tornate qui, nella città dove questo è accaduto – via Tribunali 179, a una paradossale e beffarda manciata di metri da Castelcapuano, sede storica del palazzo di Giustizia – e mettetevi in ascolto del pieno, rotondo, perfetto silenzio che quel fatto ha generato. Appena sei mesi fa il procuratore della Repubblica di Napoli Giovanni Melillo – da poco passato a guidare la Procura nazionale antimafia – parlava di una “camorra banalizzata, sottovalutata e dimenticata” con parole di fuoco che avevano subito l’amaro destino di subire precisamente lo stesso trattamento di banalizzazione, sottovalutazione e oblìo che tentavano di denunciare, grazie a quel poderoso meccanismo di annichilimento delle idee che sempre Napoli riesce a produrre con forza inspiegabile e vittoriosa.
Ad avere ancora forza e voglia per farlo, il salto dell’immaginazione tra quello che sarebbe accaduto in altre parti del Paese e quello che invece accade qui, poi, potrebbe scorrere lungo un altro binario, quello della risposta delle persone: la consapevolezza dei cittadini, la reazione del quartiere, la ribellione dei residenti. E anche in questo caso di argomenti capaci di muovere all’ottimismo ce ne sarebbero davvero pochi. Perché se è vero che una manifestazione pubblica è stata realizzata, è ancora più amaramente vero che accanto ai titolari del ristorante “Cala la pasta”, sabato scorso, c’erano solo le istituzioni. La vicesindaca Filippone, i presidenti di municipalità con qualche consigliere comunale, il parroco di Forcella, il presidente della Camera di Commercio. Troppo poco, seppur doveroso.
Troppo debole, seppur necessario. Non è con il pur fondamentale apparato scheletrico di rappresentanti ufficiali che si fanno queste battaglie, ma con il sistema circolatorio delle migliaia di volti che in quelle zone amano, lavorano, studiano e si divertono. Vivono, in una sola parola. «Dopo quanto accaduto ci saremmo aspettati una mobilitazione collettiva, invece ci sentiamo soli» hanno detto i titolari del ristorante, più che comprensibilmente amareggiati. E se c’è una cosa che colpisce da sempre in questi casi, se esiste un elemento che è un inossidabile filo rosso che tiene intrecciate ognuna di queste pagine che hanno a che fare con la risposta della città agli attacchi di clan, camorristi e violenti, è la dimensione sempre uguale dello schema. Accade un fatto intollerabile che colpisce, o dovrebbe, le coscienze, passa qualche giorno e tutto torna letteralmente come prima. È accaduto oggi con il folle investimento di via dei Tribunali, è accaduto ieri con la sparatoria di piazza Nazionale dove toccò alla piccola Noemi, accadrà domani con chissà chi e chissà dove. Napoli è la città della mobilitazione mediatica e digitale, se e quando quello che accade sposa criteri e meccanismi di quei canali comunicativi. Sennò è solo deserto e apatia. Si pensi a quello che accadde con le manifestazioni a favore di Gino Sorbillo e della sua pizzeria, quando si pensava che fosse stata oggetto di intimidazione camorristica.
Tonnellate di solidarietà sui social, magari con un selfie di quella volta che avevamo mangiato una straordinaria pizza margherita – chi, in fondo, non ne ha una, nell’archivio di immagini del suo smartphone? -. Grande copertura mediatica. Zero voglia di metterci il corpo, nel passaggio dalla Rete alla strada. Che cosa ci si può aspettare da una città così?, verrebbe malinconicamente da chiedersi. E viene da pensare al film della sua storia recente, che ormai sempre più spesso sembra riavvolgersi al contrario. Perché è contro questa riottosa società civile di sonnambuli intimamente sorda a ogni richiamo all’interesse generale, e contro i suoi istinti autocentrati e autoprotettivi, che da sempre se l’è dovuta vedere non solo lo Stato italiano ma la città stessa. Ed è contro questa apatia che tanto spesso sono naufragati i tentativi di far valere regole di legalità e fini collettivi più ampi e larghi, che vadano oltre il “particulare”. Tentativi che, oggi più che mai, sembrano vani, nel momento in cui continua a venir meno l’unica arma temuta da clan e predoni vari del territorio: il senso di gruppo, la pratica continua di una coscienza collettiva, la risposta rumorosa della enorme maggioranza di persone perbene e cittadini onesti, il desiderio di prendersi le piazze, di dire che Napoli è di chi la abita e non di chi la devasta. La voglia di non sentire più un senso di dominio ma di appartenenza. In un film di un paio di anni fa, “Il processo ai Chicago 7” – c’è una scena in cui si discute sul fatto se venga prima la rivoluzione culturale o quella politica. In soldoni, trasformiamo prima le teste o le cose? Il film non dà la soluzione alla domanda. E non lo farà neppure questo testo. È così evidente, la risposta, che sarebbe un’offesa anche solo suggerirla.