L'illusione dell'efficienza dopo il taglio dei parlamentari

di ​Serena Sileoni
Mercoledì 23 Settembre 2020, 23:30
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Chiusa la conta dei voti sulla riduzione del numero dei parlamentari, si può cominciare a fare la somma delle certezze e delle incertezze sulla composizione e il funzionamento del prossimo Parlamento. Il primo dato sicuro è che il Parlamento a partire dalle prossime elezioni dovrà essere composto di 600 membri elettivi, anziché 945. Quella che sembra un’ovvietà implica anche una considerazione meno ovvia, almeno a sentire le richieste dell’opposizione.

L’attuale Parlamento con i suoi 945 membri è pienamente legittimato a continuare la legislatura. Invocare uno scioglimento anticipato delle Camere solo in conseguenza dell’esito referendario è semplicemente infondato: la stessa legge costituzionale ora confermata dal referendum si premura di dire che la sua efficacia non è retrospettiva rispetto al Parlamento in carica, ma successiva alla prima conclusione di legislatura o al primo scioglimento delle Camere.

Le quali Camere ora dovranno rivedere - ecco la seconda certezza - le regole di lavoro per adeguare ai nuovi numeri la loro organizzazione, sia per garantire i diritti delle minoranze sia per garantire la democraticità del sistema.

Terza certezza: il governo dovrà presto avviare i lavori per la modifica dei collegi elettorali. Esiste infatti già la legge delega che prevede la necessità di rideterminare i collegi nel caso di riduzione del numero dei parlamentari.

La prima è una certezza oggettiva, la seconda una certezza istituzionale (il Presidente del Senato Elisabetta Casellati ha già convocato ieri la Giunta del Regolamento per avviare l’iter di modifica del regolamento interno ed è probabile che i parlamentari, almeno per gli adeguamenti tecnici, si appoggeranno alla competenza degli uffici parlamentari), la terza una certezza politica (non c’è motivo per cui il Governo non eserciti la delega).
Oltre a queste conseguenze, ogni altro effetto del referendum è ancora nell’iperuranio delle ipotesi. Una, tuttavia, sembra particolarmente evidente e paradossalmente contraria rispetto alle argomentazioni del «sì». Tra queste, infatti, c’era il proposito di poter finalmente avviare un percorso di riforme costituzionali di cui la riduzione del numero dei parlamentari avrebbe dovuto essere solo la prima tappa. In particolare, si è ampiamente ricordato che tutti i precedenti e naufragati tentativi di riforma delle funzioni e della composizione delle Camere avevano tra le loro previsioni anche la riduzione del numero, e che quindi provare a partire dalla più semplice e popolare delle riforme potrebbe essere un modo di raggiungere, per altra via, quella modifica del bicameralismo che tutte le maggioranze politiche hanno provato invano ad ottenere. 

In effetti, dalla metà degli anni Ottanta il tema è stato sempre quello di rivedere il funzionamento e la composizione delle Camere nel senso di superare il bicameralismo perfetto, i cui tempi sono stati vissuti con sempre più insofferenza, rispetto all’esigenza iniziale di un doppio momento di riflessione democratica, dopo l’azzeramento fascista del dialogo parlamentare. 

Dalla prima metà degli anni Novanta, a questa insofferenza si è affiancata anche quella per un sistema elettorale che aveva fino ad allora privilegiato gli opachi meccanismi della democrazia consensuale ai più chiari metodi della democrazia dell’alternanza.

Tuttavia, il taglio dei parlamentari appena confermato, unito alle iniziative collaterali già avviate, conferma in realtà proprio quel bicameralismo perfetto di una democrazia non-decidente che per tanto tempo, trasversalmente, si è provato a modificare. Alla riduzione numerica degli onorevoli, infatti, si accompagnano due riforme in corso che vanno nel senso di una maggiore uniformità tra Senato e Camera nel loro unico elemento di differenziazione, vale a dire la composizione.

La prima è l’abbassamento - approvato in prima lettura sia alla Camera che al Senato - dell’elettorato attivo per il Senato a 18 anni, come è ora per la Camera. Il differente elettorato attivo e passivo era un elemento di identità per un Senato che, non riuscendo ad essere una Camera delle regioni, assomigliava più a una Camera alta di ulteriore, più matura riflessione (da qui anche la previsione dei senatori a vita). 

La seconda, di iniziativa di deputati di maggioranza, è la sostituzione della formula secondo cui il Senato è eletto su base regionale con quella, identica alla Camera, per cui è eletto su base circoscrizionale. A queste due ipotesi costituzionali si aggiunge inoltre l’accordo di maggioranza per una legge elettorale che elimini ogni residuo maggioritario, il cui testo base è stato approvato in Commissione alla Camera pochi giorni prima del referendum costituzionale. Dunque, il taglio dei parlamentari unito a un sistema integralmente proporzionale e all’uniformità di elettorato attivo tra Camera e Senato potrà voler dire molte cose, ma difficilmente potrà voler segnare il primo passo per una riforma che aggiorni il sistema bicamerale alle esigenze di differenziazione e efficienza.
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