L'Italia impari dalla Germania come avvicinare il Nord al Sud

di Isaia Sales
Mercoledì 6 Novembre 2019, 22:40
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La caduta del muro di Berlino è un evento «segna-epoche», di quelli cioè che appartengono all’accidentata storia delle lotte per le libertà umane, la rapidissima riunificazione delle due Germanie può essere indicata ad esempio da seguire per le strategie di superamento delle diseguaglianze territoriali. Si tratta, infatti, di uno dei tentativi più coraggiosi, più originali, più dispendiosi fatti in Europa per ridurre le distanze tra due realtà territoriali che, per varie ragioni storiche, si erano trovate separate. 

All’atto del ricongiungimento, eliminato il muro di pietra, ci si rese conto che un altro muro (altrettanto lungo e massiccio) era necessario abbattere: quello della distanza di reddito, di infrastrutture, di opportunità, di servizi civili. 

I tedeschi erano di nuovo un solo popolo e una sola nazione, ma profondamente divisi al loro interno, con distanze tra varie regioni che mai erano state così nette. E che anzi sembravano capovolgere la storia precedente.
Fino al 1949, cioè all’atto formale della divisione della Germania in due entità statali distinte, i Lander orientali (quelli finiti sotto il dominio comunista) rappresentavano la parte più sviluppata della Germania intera, essendo parte della «grande Prussia», una delle realtà industriali più avanzate al mondo. Nel 1937 quei territori avevano il reddito per abitante più alto in Europa, con la presenza di imprese modernissime nel campo della meccanica di precisione, dell’ottica, della chimica e della produzione aereonautica. 

Erano state le vicende politiche successive a ribaltare la situazione, non l’indole o il carattere dei tedeschi orientali, come pure per un periodo si aveva avuto la sfrontatezza di affermare. 

Essendo noi italiani il popolo con i più persistenti divari territoriali in Europa (e per giunta localizzati sempre nelle stesse aree geografiche) è il caso di guardare alla riunificazione tedesca con più interesse e curiosità di quanto fatto finora. Solo negli ultimi tempi all’argomento è stata dedicata un’attenzione maggiore. Certo, non è stata raggiunta la totale parificazione tra l’economia dei Lander occidentali e di quelli orientali, la disoccupazione è ancora elevata, e quasi 2 milioni di persone sono emigrate dal 1989 ad oggi dall’Est all’Ovest, ma la «convergenza» fra le due parti della nazione tedesca è comunque un percorso in atto, e in poco meno di un trentennio sono stati fatti dei passi avanti impressionanti rispetto alla situazione di partenza. Quindi, sulla basi di quanto sta avvenendo in Germania, avvicinare due territori diversamente sviluppati (in un lasso di tempo ragionevole) è un obiettivo assolutamente alla portata di qualsiasi nazione ben motivata. In economia e in politica non esistono situazioni irrecuperabili. E quella del Sud d’Italia non lo è affatto, nonostante la recessione segnalata proprio ieri dal rapporto della Svimez. 
Immagino le obiezioni: la Germania non è l’Italia, il Sud nostrano non è l’Est tedesco. È evidente, è lapalissiano. Ma le due nazioni hanno in comune un divario economico di lunga durata. In Germania tale divario è maturato a seguito della seconda guerra mondiale, è databile dal 1949, e si è sviluppato all’interno di due diverse compagini statali, quali erano diventate la Germania federale e la Repubblica democratica tedesca. In Italia il divario è di ancora più lunga durata, si è presentato già all’atto dell’unità nazionale, si è consolidato tra il fascismo e la seconda guerra mondiale, si è ridotto solo nel periodo «magico» tra il 1951 e il 1971 (quando tutto il Paese è cresciuto a tassi altissimi e quando gli investimenti al Sud sono stati uno dei motivi di tale crescita accelerata) e si è poi mantenuto sostanzialmente invariato nei successivi quarant’anni. Il divario del Sud dura, dunque, nella peggiore delle ipotesi da 150 anni, nella migliore almeno da 100 anni. 

Il caso della Germania dimostra che anche un divario di lunga durata, creatosi per ragioni diverse da quello italiano, lo si può affrontare e venirne a capo in un lasso ragionevole di tempo. I popoli non sono immobili, né tantomeno i territori. Perché dovrebbe esserlo quello meridionale? 

Una cosa che si ignora è che nel periodo della Cassa del Mezzogiorno, con minori risorse disponibili rispetto a quelle utilizzate in Germania dal 1991 in poi, i tassi di crescita dell’economia meridionale sono stati a volte superiori a quelli pur notevoli fatti registrare nei Lander tedesco- orientali. Il che vuol dire che l’Intervento Straordinario nel Sud non va confuso con le sue degenerazioni; nel periodo 1951/1971 le regioni meridionali sono cresciute a tassi pari a quelli odierni dell’Est tedesco e in alcune occasioni anche a tassi superiori.

Non è vero, dunque, che i soldi spesi nell’area più arretrata di una nazione sviluppata sono uno spreco, un elemento antieconomico, una perdita secca per lo Stato e per i territori più ricchi. La Germania dimostra esattamente il contrario: investire nella parte meno sviluppata è un affare per l’intera nazione. Può sembrare un sacrificio in un primo momento, poi si trasforma in una straordinaria opportunità. La Germania di oggi è di gran lunga la nazione europea più sviluppata, economicamente più ricca, più sviluppata e più ricca di quanto lo fosse nel 1989, prima della riunificazione e prima dei grandi investimenti nell’Est. Recuperando la parte più arretrata, la ricchezza investita si è trasformata in ricchezza generale. La Germania di oggi deve quello che rappresenta nell’economia mondiale alle scelte del 1991, alla decisione di investire ingenti risorse pubbliche per superare il suo divario interno. Colmare il divario economico presente in un’area interna alla stessa nazione è una operazione che si ripaga ampiamente, è un affare per tutti e non un sacrificio di una parte. 

Torniamo a fare un po’ di conti. La Germania ha speso nelle sue regioni arretrate qualcosa come 2000miliardi di euro in poco meno di 30 anni. In 60 anni nel Sud, dall’avvio della Casa del Mezzogiorno al 2010, sono stati investiti 350 miliardi di euro (compresi quelli spesi in alcuni territori del Lazio), quasi 6 volte in meno. 

Ma quando nel 1991 in Germania si ratifica ufficialmente la riunificazione e si avviano le conseguenti politiche economiche, in Italia si decide di bloccare qualsiasi ulteriore intervento nel Sud. Se nel 1991 inizia l’ascesa della Germania a nazione leader dell’ Europa, comincia invece il declino del nostro Paese.

Insomma l’unificazione e le politiche fatte per ridurre i divari sono alla base del successo tedesco; la rinuncia a superare il divario economico tra Nord e Sud dell’Italia è, invece, alla base del nostro declino. Il muro economico da abbattere resta il pregiudizio antimeridionale.
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