L’onore restituito a un poliziotto che aveva coraggio

di Pietro Gargano
Sabato 21 Novembre 2015, 01:04 - Ultimo agg. 4 Novembre, 00:11
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Tutto il fango è colato via. Dopo le assoluzioni in primo grado e in Appello, ieri sono stati lasciati cadere i termini per il ricorso in Cassazione, per cui l’ex capo della Squadra mobile napoletana Vittorio Pisani ritrova formalmente tutto l’onore che gli è dovuto. È un storia brutta ed esemplare, quella di Pisani, alla sbarra per rivelazione di segreto d’ufficio, favoreggiamento, abuso d’ufficio e falso perché, sosteneva la Procura, avrebbe avvisato l’amico Marco Iorio, titolare di un ristorante di via Partenope, che si indagava su di lui.



Eppure tempo prima il detenuto calabrese Massimo Amato aveva invano denunciato «un progetto per screditare e sporcare la credibilità del poliziotto» che aveva sradicato i Casalesi arrestando Michele Zagaria e Antonio Iovine detto ‘O Ninno. Eppure il primo accusatore, il boss Salvatore Lo Russo detto ‘O Capitone, era evidentemente inaffidabile.



«Il fatto non sussiste». Pisani è stato l’«incubo peggiore» dei Casalesi, il loro nemico giurato, hanno scritto i giudici. Ma il prezzo pagato per questi tardivi elogi è stato alto. Il poliziotto ha dovuto lasciare la Mobile per approdare prima allo Sco e poi al Servizio immigrazione, di cui tardivamente è diventato reggente.



Perfino la miniserie di Raiuno sulle sue imprese, «Sotto copertura», ha subito un rinvio e la seconda e ultima puntata è stata messa in onda solamente ieri. Il motivo conduttore della colonna sonora, firmata dal rapper Lucariello, assume un senso profetico: bisogna metterci la faccia, Pisani lo ha fatto, vietò ai suoi uomini di indossare i passamontagna: «Se li mettono i ladri che hanno paura e si vergognano di quello che fanno. Noi non abbiamo paura, dobbiamo essere fieri di quello che facciamo, garantiamo la sicurezza dei cittadini».



Gliel’ hanno insozzata e finalmente ripulita quattro anni dopo l’inizio della calunnia. Un lungo tempo amaro che nessuno risarcirà. Perché è accaduto? Per quella ovvia e risaputa rivalità tra i cosìddetti servitori dello Stato che già in passato ha prodotto non pochi corto circuiti? Per l’ambizione stessa di Pisani, che insieme alle sue indubbie capacità avrebbe potuto proiettarlo fino ai vertici della Polizia?





In un caso o nell’altro Pisani ha pagato la sua stessa bravura e i metodi con cui l’ha esercitata. In tempi di tecnologia esasperata - microspie, dna, intercettazioni a go-go e caccia fin troppo paziente ai pentiti, il capo della Mobile ha preferito altre strade, più classiche e dirette, più pericolose. Ha presidiato il territorio, ha cercato e frequentato confidenti per il tempo necessario a verificarne la piena attendibilità.



Ha braccato la soffiata giusta. Questa tesi trova riscontro nelle motivazioni della prima sentenza. Il giudice scrisse che il procedimento «ha finito per trasformarsi in un processo alla sua carriera, alla sua moralità, in altre parole alla sua stessa persona e di riflesso all’importante ufficio a cui era preposto, all’intero percorso lavorativo dell’alto funzionario, alle sue metodiche e scelte operative, alla sua gestione dei rapporti personali, professionali e non».



Fatale che incappasse in qualche personaggio indegno dei salotti borghesi, ma i risultati ottenuti provano che il suo metodo ha funzionato. Non sempre il futuro è progresso. Per questo l’onore restituito a Vittorio Pisani (che ci auguriamo possa trovare eco nella sua carriera) vale anche come rivalutazione di un sistema diverso, collaudato e poi abbandonato, di gestire le indagini.



L’orecchio a terra non basta più, ma resta un punto di inizio.
C’è da chiedersi se oggi a Napoli non sarebbe utile il lavoro di Pisani, in una città in cui la camorra torna a far paura e si fa fatica a capire chi la comandi davvero.