La Capria (ri)scoperto è la dura legge del marketing

di Fabrizio Coscia
Giovedì 30 Giugno 2022, 00:00 - Ultimo agg. 5 Luglio, 20:23
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Le vetrine e gli scaffali delle librerie sono adesso piene dei libri di Raffaele La Capria. Finalmente. Peccato che lui non possa gioirne. Lui che si rammaricava spesso, da molto tempo, che i suoi titoli non si trovavano più in libreria. Ha dovuto lasciarci per guadagnarsi un totem tutto suo alla Feltrinelli. 
 

È la legge del marketing, si sa. Ma La Capria ha avuto sempre un rapporto difficile con i lettori, dopo l’unico, grande successo di «Ferito a morte». Facile, idilliaco perfino, è stato il suo rapporto con gli scrittori e i critici di ogni generazione, anche i più giovani, che non hanno mai smesso di amarlo, di leggerlo e di considerarlo un Maestro, ma con il lettore italiano è stata una storia di ripetute delusioni. Diciamoci la verità: La Capria è stato uno scrittore più citato che letto. Chi non conosce le sue metafore diventate virali, per così dire: la Grande Occasione Mancata, la bella giornata, l’armonia perduta, lo stile dell’anatra? Ma quanti di quelli che le conoscono, queste metafore, hanno letto davvero i suoi libri? Esattamente dieci anni fa, La Capria mandò una lettera al quotidiano «Il Foglio» in cui annunciava il suo ritiro, la sua decisione di smettere con la scrittura. Era un annuncio polemico. Se la prendeva, La Capria, con il lettore italiano. Lo accusava di averlo sottovalutato: «Caro lettore italiano - scriveva - io e te, per la maggior parte del tempo della mia vita, non ci siamo intesi. Ho scritto almeno una ventina di libri buoni, secondo me, e uno solo, “Ferito a morte”, ha venduto in modo soddisfacente, qualche centinaio di migliaia». 


«E gli altri? Le copie vendute degli altri miei libri sono per me in gran parte deludenti, poche migliaia o meno. Non ti vergogni? Ti pare bello trattarmi in questo modo dopo tutta la fatica che ho speso per scrivere i miei libri in un linguaggio semplice e accessibile a chiunque, dunque anche a te?». Il tono era, naturalmente, ironico, ma l’amarezza traspariva da ogni riga. «Se penso a quanto tempo ho impiegato per scegliere la parola giusta, l’aggettivo giusto, il periodo giusto, a tutto il tempo impiegato per crearmi uno stile mio, riconoscibile, e tutto per chi? Per uno come te, che di queste cose non capisce niente». Lo scrittore condannava il cattivo gusto imperante del lettore italiano. «Fai qualche sforzo! Cerca di evolverti!», lo esortava. 


Quando scoprii questa lettera, chiamai subito La Capria per intervistarlo. Gli chiesi che cosa lo avesse spinto a scriverla. Mi disse che era stato un senso di stanchezza, da un lato, e di insofferenza, perfino di rabbia, dall’altro: «Mi dà terribilmente ai nervi vedere alcuni miei colleghi in cima alle classifiche - sbottò -.

Certe situazioni non possono che confermare la stupidità del lettore». La sua onestà intellettuale gli impediva di fingersi distaccato. Non nascondeva il suo risentimento. Era una reazione umanissima. Quale scrittore non vorrebbe essere amato dai lettori? Non si scrive, in fondo, per questo? 


Ma perché il lettore italiano ha abbandonato Raffaele La Capria? Lui stesso indicava una possibile causa nella scelta che aveva fatto, negli anni Settanta, di abbandonare il romanzo e di darsi a un genere particolare, poco frequentato, che chiamava autofiction, ma che era anche diario, frammento autobiografico, saggio narrativo. In effetti, in questo, La Capria è stato il più moderno degli scrittori italiani, quello che ha avvertito prima di tutti, prima anche del Calvino di «Se una notte d’inverno un viaggiatore», che scrivere romanzi non era più possibile, che quel genere ormai era esaurito. «Ferito a morte» è stato, forse, l’ultimo suo frutto novecentesco. Al suo posto, dopo un silenzio di oltre dieci anni, e il tentativo “fallito” di «Amore e Psiche», La Capria aveva cominciato a dar voce all’«estro quotidiano» dell’autore, già da «False partenze» e poi con i «raccontini-pensieri» di «Fiori giapponesi», prima di dedicarsi, definitivamente, alle divagazioni saggistiche e autobiografiche. 
Ma intanto, che cosa stava succedendo al lettore italiano? Gli era stato assicurato - ed è stato convinto - che il romanzo fosse ancora vivo e vegeto: ne fu una conferma indiscutibile quella astutissima e abilissima operazione di belletto riesumativo che è stato «Il nome della rosa» di Umberto Eco. È cominciata, da allora, l’epoca della narrativa che finge di essere di qualità, ma non lo è. «Un tempo esistevano la buona e la cattiva letteratura - mi disse La Capria durante quella telefonata di dieci anni fa - e non c’era pericolo di sbagliare. Oggi, invece, esiste anche la cattiva buona letteratura. Ovvero ci sono dei libri che sembrano scritti tecnicamente bene, ma un lettore smaliziato capisce subito che non lo sono. È un’ampia zona grigia dove ciò che sembra oro si rivela ottone». L’ottone taroccato del romanzo commerciale che si spaccia per letteratura - quello che un tempo si chiamava midcult - ha finito così con il disabituare il lettore italiano dal riconoscere il vero oro della letteratura. «Impara a leggere!» intimava La Capria, deluso, amareggiato, in quella lettera. Adesso, forse, il miglior modo di omaggiarlo, celebrarlo, ricordarlo è semplicemente leggere i suoi libri.

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