Il «contagio» della cultura ​e i muri da abbattere

di Piero Sorrentino
Lunedì 2 Marzo 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Nel suo romanzo «Il condominio», ambientato interamente in un lussuoso palazzo di oltre quaranta piani costruito alla periferia di Londra, lo scrittore inglese J.G. Ballard immagina una realtà inquietante nella quale le classi sociali sono fedelmente distribuite tra i vari piani della costruzione: i lavoratori semplici ai piani bassi, poi la classe media distribuita in quelli centrali, fino ad arrivare ai ricchi che occupano i livelli alti.

Una convivenza più o meno pacifica che si spezza il giorno in cui un improvviso blackout di corrente fa venire fuori pulsioni profonde che sfociano in odio, rivalità e violenza di classe. E proprio nel suo essere stato pensato come una microcittà, il condominio raccontato da Ballard riesce a essere una straordinaria macchina narrativa per descrivere alcune pericolose dinamiche delle grandi città: segregazione urbana, diseguaglianze, confini tra ricchi e poveri, fratture tra centro e periferia. In questo senso, faceva uno stranissimo effetto, giovedì scorso, percorrere il centro di Napoli.

Nelle stesse ore, infatti, si svolgevano e si sovrapponevano due eventi: la visita in città del presidente Macron e l’inaugurazione della seconda edizione del Festival «Lezioni di storia» della casa editrice Laterza. E chi abbia attraversato, in particolare, il pezzo di città che va da via Foria al teatro Bellini può intuire bene di che cosa si parla. Da un lato la Napoli blindata dal piano di sicurezza previsto per la visita del presidente francese, una città di plastica, attentamente sorvegliata, con le strade – naturalmente solo quelle percorse dal corteo presidenziale – ripulite, i cassonetti svuotati, le aiuole curate e innaffiate. 

Dall’altro c’era la città disseminata intorno ai luoghi del Festival, piena di gente, aperta, brulicante di corpi e singolarità riunite assieme in un piccolo ma importantissimo gesto comunitario che ha spazzato via queste atroci settimane di martellanti campagne informative sul Coronavirus. E Titti Marrone lo ha detto benissimo proprio su queste colonne: «Persone estranee alla Grande Bruttezza inflitta sotto forma di stese, di raid e delle altre sopraffazioni (…) che hanno offerto l’immagine di una cittadinanza poco incline a segregarsi in casa sull’onda di allarmismi esagerati». Saltare dall’una all’altra città era facilissimo, bastava percorrere poche centinaia di metri lungo via Foria. Ma comprendere la reale portata dello sbalzo radicale esemplificato da questi due esempi presi dalla cronaca è una delle grandi sfide di questa città, che rischia di avvolgersi sempre di più lungo una spirale di separazioni, muri, diseguaglianze. Del resto proprio un importante filosofo napoletano, Roberto Esposito, ci ha spiegato i rischi delle richieste sempre più profonde di immunizzazione che caratterizzano in misura sempre maggiore le nostre realtà: più percepiamo, esagerandoli fino al parossismo, i rischi legati all’apertura verso l’Altro, più le società e le città si nascondono dentro rassicuranti confini di sicurezza che si concretizzano, proprio come nel condominio di Ballard, in gerarchie sociali sempre più rigide. E più gli individui aderiscono alla legittimazione delle gerarchie, meno avvertono le diseguaglianze, in un meccanismo perverso di adesione alle gerarchie che tocca tutti gli strati sociali che finiscono quasi col rassegnarsi accettando la loro condizione come immutabile e ineluttabile. 

Quella folla di corpi vivi, vista in contrasto con la città di plastica, deve servire come testimonianza fondamentale per ricordarci che se si erode il senso della collettività, il rischio è sempre e solo uno, pericolosissimo: la lotta tra i poveri, la guerra tra gli sconfitti. I sociologi sanno benissimo che la feroce competizione tra gli strati più derelitti della popolazione è un effetto fortissimo delle diseguaglianze. Una società diseguale è infelice e violenta, perché le persone desiderano il raggiungimento di benessere che a loro sfugge, e questo crea frustrazione. Le società diseguali tendono a essere più violente, perché quando una parte importante di essa – in questo caso la nutritissima fascia giovanile di svantaggiati che abita sia il centro che le periferie di Napoli – tende a non avere nessun soddisfacimento dei propri desideri, questa frustrazione può sfociare in atti di violenza predatoria, e quanto accaduto nella notte tra sabato e domenica con la tentata rapina del 15enne dei Quartieri Spagnoli poi terribilmente finita in tragedia non è che una ennesima, amara conferma. Chi si occupa di diseguaglianze sa bene che la via per la salvezza è solo una: accrescere istruzione e cultura da un lato, ripensare le strategie su edilizia e trasporti dall’altro. Per non trasformare le città in trappole di disuguaglianza e fortini separati non esistono altre vie.

 
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