La difficile partita (non solo militare) con Teheran

di Carmine Pinto
Sabato 3 Febbraio 2024, 23:01
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La campagna iraniana è in corso. La reazione americana pure. Il presidente Biden ha ordinato un’azione su vasta scala.

Ma dopo quasi decine di attacchi, tra gli attentati delle milizie filoiraniane (in Iraq, Siria e Giordania) e gli assalti degli Houthi (nel mar Rosso). Soprattutto, c’è voluto l’attentato con le prime vittime americane per portare gli Usa a una dimostrazione di forza di queste proporzioni. In realtà, gli americani stanno contrastando con forza il sogno dei fondamentalisti di ogni tipo: una grande guerra in Medio Oriente, innanzitutto tra Iran e Israele. 
Un obiettivo di primo livello, per Hamas e altri gruppi simili: una grande guerra cambierebbe il senso storico della regione e, di conseguenza, il quadro internazionale globale. A fronte di tutto questo, gli Usa si sono trovati ad affrontare il secondo attacco diretto all’ordine mondiale, dopo l’aggressione di Putin all’Ucraina gli americani stanno gestendo così un confronto diretto con Teheran. Sono loro i due principali attori della crisi. Usa e Iran si fronteggiano all’interno di una complicata relazione tra scenario internazionale e politica interna. 
Una dialettica fatta detonare dalla politica imperiale dell’Iran. Innanzitutto, perché ha saldato lo scacchiere mediorientale e quello europeo, suggellando una strettissima alleanza con Putin. L’asse Mosca-Teheran è il centro di un’internazionale delle autocrazie mondiali. Si aiutano anche direttamente, ci sono i russi in Siria e le armi iraniane in Ucraina. Inoltre, Teheran ha portato al massimo livello la politica dell’intervento diretto e indiretto in buona parte della regione. Gruppi terroristici, strutture paramilitari come Hezbollah, Houthi, Hamas sono presenti dappertutto. 
Gli uomini legati agli Ayatollah hanno demolito il Libano, condizionano il governo iracheno, controllano lo Yemen, sono presenti in Siria, agiscono in Pakistan, arrivano con le loro reti fino in Venezuela e in Asia. Sempre con i Pasdaran attivi per addestrare, e controllare, questa costellazione. Fino ad ora, però, la strategia del caos è riuscita solo in parte. Gli iraniani si sono trovati di fronte una politica degli Usa molto diversa da quella della ritirata di Kabul. 
Il maggiore successo di Biden, per ora, è stato l’isolamento del conflitto a Gaza. I principali Paesi arabi, dall’Egitto alla Giordania, dal Qatar all’Arabia Saudita, hanno seguito la linea della freddezza ispirata da Washington. Tutti, al netto delle dichiarazioni di prammatica, hanno scientemente evitato una potenziale tensione con Israele. Invece sono al centro delle reti diplomatiche tessute dagli Usa per contenere il conflitto a Gaza, non mostrano grande simpatia per Hamas, temono l’Iran più di chiunque altro e sicuramente più di Israele. 
Biden è riuscito anche a contenere l’offensiva nel mar Rosso, con la coalizione a guida americana, ora affiancata da quella europea. Si sono fatti carico di impedire sia il ricatto al traffico mondiale che il tentativo degli Houthi di congiungere la loro strategia terroristica alla guerra di Gaza. Così, evitato per ora il confronto diretto con Israele, si è aperto il terzo fronte in Iraq e Siria. 
Si tratta dello scenario più confuso, per la quantità di attori in campo in spazi spesso condivisi. Ci sono gli Usa a fianco dei curdi e di molte forze irachene, in mezzo le opposizioni siriane e il governo di Bagdad, di fronte gli iraniani, i gruppi terroristi o paramilitari, come quello dell’attacco agli americani (la Resistenza islamica), il regime di Assad. Nel disordine generale, anche elementi tipo l’Isis, che è nemico degli americani e allo stesso tempo odia l’Iran più di qualsiasi altro. 
Anche su questo terreno, l’obiettivo degli Usa è l’equilibrio: bloccare i fondamentalisti, impedendo una guerra, senza però consentire all’Iran di dominare la regione. Finora è riuscita anche questa politica, mostrando l’altro volto della crisi. Per Biden e per Khamenei, infatti, non si tratta solo di una sfida tra potenze, ma anche di un processo di legittimazione interna. Il brutale regime iraniano, nonostante quarant’anni di repressioni, uccisioni, esili, non è mai riuscito ad eliminare una vasta opposizione fatta di donne, giovani, intellettuali. Insomma, un ceto medio che sogna una società liberale e democratica. 
Non a caso, proprio in Iran, per quanto clandestine, si sono registrate simpatie per Israele e per quello che rappresenta, l’unica democrazia della regione. Di converso, una guerra potrebbe terremotare il regime, dando spazio ai suoi numerosi nemici interni ed esterni. Gli Ayatollah sono fanatici quando serve, ma suicidi mai: caos sì, ma guerra no. Se per Khamenei un conflitto aperto comporta questo rischio, anche per Biden il crinale è delicato. I repubblicani, a differenza che per Kiev, hanno sempre visto nell’Iran il vero nemico. Vorrebbero rappresaglie ed azioni molto più decise. 
La crisi in Medio Oriente, da questo punto di vista, rappresenta un nodo centrale della campagna elettorale presidenziale.

Biden deve gestire Israele, pensare a un dopoguerra a Gaza, tutelare gli alleati, mentre difende l’Ucraina (e l’Europa) e si aspettano i giorni di Taiwan. Tutto questo, facendo i conti con la sinistra democratica e con i repubblicani anti-iraniani. Insomma, impedire la deflagrazione con Teheran, senza venire meno ai pilastri della presenza americana in regione, è diventato un altro passaggio decisivo, per capire come si andrà al voto nel novembre del 2024.

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